«Ridatemi la mia infanzia / quella repubblica di passeri garruli / le smisurate selve di ortiche / e il pianto notturno del timido allocco/…//Adesso, oramai, saprei sicuramente / come essere bambino, saprei / come guardare gli alberi coperti di brina / come vivere immobilmente». È questo uno dei passi delle dieci poesie di Adam Zagajewski, poeta polacco nato a Leopoli nel 1945, più volte candidato al premio nobel per la letteratura, pubblicate in un volumetto dal titolo Il ’fuoco eracliteo’ nel giardino d’inverno dall’editore Raffaelli (pp. 95, euro 20) a cura di Alberto Fraccacreta per la traduzione di Marco Bruno e corredato, nella seconda parte, da cinque rilevanti contributi critici all’autore.
Adam Zagajewski sarà stasera ospite nella cornice di Villa Pignatelli (ore 19), in dialogo con il pubblico, nell’ambito di Napoli Teatro Festival Italia come protagonista degli incontri letterari.

Nei suoi libri, la memoria individuale convive con quella più ampia di una comunità. Ma la poesia oggi, nei magnifici tempi della progressione tecnologica, è capace ancora di ricercare il luogo della memoria o anch’essa è troppo distratta?
Non tutto è cambiato. La tecnologia, certamente, ha prodotto molti mutamenti ma noi siamo sempre gli stessi, dormiamo e abbiamo dei sogni, amiamo e, a volte, qualcuno ci ama. Lentamente camminiamo per i musei, guardiamo i dipinti realizzati cinquecento anni fa e vi troviamo volti che ci ricordano i nostri cari e amici. Non credo che la tecnologia abbia mai ucciso la vita interiore. Gli introversi si difenderanno, si difendono da molto tempo…

Il grande novecento polacco con i suoi rappresentanti, quali Miłosz, Herbert, Szymborska, ha scosso per forza e visione tutta l’Europa. La poesia contemporanea si è posata prevalentemente in Polonia…C’è una ragione secondo lei?
Non conosco una risposta risolutiva a questa domanda, così è successo… La Polonia è un paese strano – si trova sul fianco orientale dell’Occidente, tuttavia si considera parte dell’Occidente, ma sconta alcuni complessi. D’altro canto, ha una grande cultura russa, però è come sospesa nell’aria, non avendo contatti con la realtà politica, con il despotismo. La sua posizione periferica ha anche alcuni vantaggi – in questo caso (forse) ha permesso che il modernismo, già leggermente formalizzato, della poesia dell’Europa occidentale si saturasse di emozione, ma in modo tale da non perdere la tensione intellettuale.

Nella sua poesia «Autoritratto» uscita nel libro «Dalla vita degli oggetti» (Adelphi, 2012) a cura di Krystyna Jaworska, dice: «Talvolta mi parlano i quadri dei musei/e allora l’ironia svanisce all’improvviso…». L’opera d’arte può essere costruita anche con l’ironia?
Non sono un così radicale oppositore dell’ironia – o dello humor, che è un’altra cosa. Mi piacciono le poesie di Cummings, leggo attentamente Larkin, penso che nelle mie poesie si trovi molta ironia e un po’ di humor. Ma ritengo anche che la base di tutto debba essere la serietà – un atteggiamento critico verso il mondo. Né più, né meno.

Sempre nel medesimo libro, nella poesia «Addio ad Herbert», si legge: «…/Mi piaceva immaginarti vagabondo/tra le vette della poesia,…/Ma ti ho sempre trovato negli alloggi angusti/di quei grigi moloch detti metropoli//…». Le giro la domanda-interrogazione di Hölderlin: «perché i poeti in tempo di miseria?».
Questa è una domanda con una certa rilevanza. Hölderlin vi rispose con la sua eccezionale poesia – non smise infatti di scrivere versi, e se lo fece più tardi, fu quando la malattia lo costrinse a quell’abbandono. Finché si ha qualcosa da dire, si deve scrivere, si deve sostenere la vita spirituale. I poeti non dovrebbero capitolare – e comunque non spetta a loro stabilire l’ulteriore destino dei frutti del loro lavoro.

Dietro la sua scrittura sembra che parlino tante voci: Herbert, Miłosz, Tadeusz Rozewicz; potremmo utilizzare, per definire tutto questo, la parola latina «traditio»? o anche quella tedesca «überlieferung»?
Questo termine è per me importante, è vero. Sento le voci di questi poeti che già se ne sono andati e, di sicuro non del tutto consciamente, conservo qualcosa di quelle loro voci nei miei versi. Sono i miei maestri. Ma sono probabilmente uno degli ultimi poeti in Polonia a trattare così seriamente tali maestri: c’è stata una sorta di ribellione, i poeti di una generazione più giovane di me si sono ribellati contro la loro tradizione, hanno accusato quei maestri di retorica, magniloquenza, moralismo e altri peccati mortali.

Nel suo saggio uscito nel 2012 per l’editore Casagrande con il titolo «L’ordinario e il sublime», un passo recita così: «Sono come il passeggero di un piccolo sottomarino che non ha un solo periscopio, ma quattro. Uno mi mostra la mia tradizione famigliare, il secondo è puntato sulla letteratura tedesca, il terzo sul panorama della cultura francese, il quarto è rivolto verso Shakespeare, Keats, Robert Lowell». Non ha anche un piccolo binocolo in tasca per l’Italia?
Sì, ce l’ho, ma non volevo menzionarlo perché comunque non leggo in italiano, o posso farlo solo in minima parte. Ho conosciuto meglio queste tre aree linguistiche – e quando ad esempio leggo traduzioni di mie poesie in queste tre lingue posso essere io stesso lettore. Forse ciò vale meno per il francese: questi ultimi sono tali perfezionisti della propria lingua che malvolentieri lasciano il microfono agli stranieri. Ma quando leggo in inglese o in tedesco, mi sembra per un momento che io sia un poeta con quelle nazionalità. Solo per un momento. E ciò mi dà un senso di una certa familiarità – probabilmente illusoria – , mi fa sentire in comunione con la letteratura di questi paesi.

Nella poesia «La musica ascoltata con te», i suoi versi dicono: «La musica ascoltata con te/resterà sempre con noi//. Il grave Brahms e l’elegiaco Schubert,/alcuni canti, la terza sonata di Chopin/…». Quanto ha contato il suo orecchio, educato all’ascolto, nella attività di composizione poetica?
Contemporaneamente educato e ineducato. La mia storia d’amore con la musica è molto speciale, è una passione non corrisposta, poiché tutti i dettagli tecnici superano le mie conoscenze. Sono un po’ un barbaro totalmente affascinato dalla musica – ma sicuramente al di fuori della cerchia dei professionisti che possono fischiettare le melodie di Mozart o di Brahms. Ma davvero – senza musica non ci sarebbe per me poesia, sono sorelle che si adorano. Siccome esistono anche sorelle che non si sopportano… La poesia parla un po’ troppo, la musica troppo poco, si completano a vicenda.

Nella Polonia, che nel secolo scorso ha combattuto contro ogni tipo di fascismo e totalitarismo per riavere la libertà di espressione, tornano movimenti xenofobi. La poesia come strumento educativo nelle scuole non è stata sufficiente?
La poesia come pedagogia non è mai abbastanza. Analogamente Pessoa non ha fermato Salazar in Portogallo né Rilke Hitler. Sono due mondi diversi. Purtroppo, l’amore per la violenza sta tornando in varie forme e in diversi paesi. Nel mio, succede in modo molto evidente, con il permesso e con l’istigazione del governo. Allo stesso tempo, questo sgradevole governo vuole commemorare la poesia di Zbigniew Herbert, poeta della contemplazione, della riflessione – provando a imporre una lettura nazionalista alla sua produzione. Ovvero, paradossalmente, la poesia è importante, ma deve essere fraintesa per poter giocare un ruolo sociale.

Nella sua opera vibra non solo la parola di esule (come accade in «Tradimento») ma anche quella di patria, che diventa un luogo mai perduto dell’infanzia, è così?
Ho due patrie, o anche «piccole patrie», due infanzie. Una reale, della memoria, ricordando l’odore di erbacce e foglie di pioppo, il parco e la piazza. E la seconda, che non è esistita, a Leopoli, quella città che è diventata per me interamente mitica, imperscrutabile, misteriosa, meravigliosa.