André Dunoyer de Segonzac, Henri Le Fauconnier, Roger de la Fresnaye, Amédée de La Patellière… quanti bei nomi di pittori, dalla tonda e nobile sonorità, si sono dati appuntamento in Francia fra le due guerre! Strano: nomi che ‘agiscono’ sulle opere d’arte, accrescendone il potenziale ‘tattile’ (a volte, saporite onomatopee: ‘Segonzac’ per il nervosismo grafico dell’artista). Chissà se mai qualcuno ha indagato questo particolare aspetto della ricezione figurativa.
Fu proprio un suono che mi convinse, la primavera di cinque anni fa, a prevedere una sosta, non solo aeroportuale, a Beauvais, l’antica cittadina degli arazzi e delle maioliche, martoriata dai bombardamenti novecenteschi. Amédée Dubois de La Patellière era il suono. Sapevo qualcosa di questo solitario pittore della génération du Feu, morto ad appena quarantadue anni nel 1932; ma dal momento in cui ho veduto l’opera al vivo, nella mostra dedicatagli a Beauvais, la sua favola insieme umanistica e apocalittica, odorosa di mosto e stallatico ma anche agitata da terribili eclissi solari, si è insinuata e ha scavato…
L’infanzia da rue Visconti
È uno di quei pittori di Francia, abbastanza frequenti, per i quali l’origine provinciale fa la differenza: Parigi, con tutte le sue seduzioni, non riesce a intaccare la sostanza primordiale della vita immaginativa. Dall’atelier di rue Visconti, La Patellière continua a fissare la sua infanzia, segnata da un mondo, le campagne intorno a Nantes, dove la piccola nobiltà cui apparteneva la famiglia, originaria della tenuta di Bois-Benoît nel Vallet, viveva in promiscuità con i contadini e le loro leggende. La sua pittura, soprattutto nella prima stagione, celebra le tradizioni circolari della vigna e del bestiame, restituite in una specie di onirica sospensione tramite la luce, che – diciamolo subito – è in lui il principio operante, non in termini naturalistici, come indicherebbe il frequente parallelo con i fratelli Le Nain, ma secondo un arbitrio quasi teatrale.
Nella cantina, nella stalla o nei campi, dorme il mondo di La Patellière! Risucchiato in un sonno che lo distrae misticamente dalle urgenze della Storia, lo proietta fuori: ma, secondo la ‘metafisica del concreto’ di Tommaso d’Aquino, guida spirituale dell’artista, la realtà non si dissolve, resta, determinata e pesante. Lo stretto legame con l’universo rurale ha influito non poco sulla ricezione critica di un’opera che è stata eletta, per esempio da François Mauriac, a nobile espressione della vecchia Francia, minacciata, dopo la Prima guerra, dal disordine della modernità.
Partecipe del vasto movimento detto della Jeune peinture française, che, sotto il vessillo di Derain, intendeva ritrovare il filo spezzato dalle avanguardie di primo Novecento (leggere l’ottimo libro di Michel Charzat, Hazan 2010), La Patellière condivide con una parte di questa compagnia (soprattutto il trio Segonzac, Boussingault e Moreau) la collocazione in categorie come «realismo» o «modernismo temperato», davvero mute a fronte di poetiche tanto singolari. Ognuno di essi ha il suo Courbet e il suo Cézanne, che non è il Cézanne finale di forma aperta ma l’ardito ‘muratore’ ottocentesco.
Riguardo a La Patellière, bisognerà aspettare, nel 1996, la sortita critica di Philippe Dagen, per comprendere appieno il caso di un pittore che «ha rifiutato di ridurre la sua arte a degli artifici e di farne l’esercizio di un’intelligenza visuale del mondo». Significa coglierne la vera seppur sommessa diversione dal sistema dei ‘ritorni’: all’Ordine, al Mestiere, al Museo, in cui restò imprigionata la sua generazione. Adora gli antichi maestri, a cominciare da Poussin, ma si avvede subito del rischio insito in questa adorazione, che trasforma i più in pappagalli, per i quali quella lezione non è altro che un ricettario, un elenco di accorgimenti. Risultato, il prevalere spropositato della ‘tecnica’, che distrugge lo ‘spirito’: «La tecnica è certamente necessaria, ma il suo culto è nefasto e conduce a quel manierismo di tutte le epoche di decadenza».
«Arte austera e pura come una geometria»: anche il cubismo, al quale La Patellière non fu indifferente, traendone, quanto Segonzac, una solida disciplina costruttiva, è stato corrotto però dal demone della tecnica. In una laconica nota del 1932, dove riassume le tappe della sua biografia, egli scrive che dopo la guerra, «attirato dal romanticismo (espressione del lirismo nascosto della natura) e dal colore (gli impressionisti)», aveva inteso il cubismo nient’altro che come «una lezione di musei, una tecnica in sé, un frutto staccato dall’albero».
Attenzione, parliamo di un pittore che ebbe una grande ammirazione per Picasso, il quale, nel momento a cui si riferisce, era alla svolta neoclassica. Da Picasso a La Fresnaye, il classicismo fu, nel primo dopoguerra francese, un’opzione seducente per uscire dalle secche dell’accademia cubista, ma La Patellière, che, bloccato per anni dalle costrizioni militari, cominciava proprio allora, si mostrò da subito refrattario a ogni scorciatoia. Ecco emergere da memorie ancestrali un universo strano e compatto, realizzato con una materia spessa rialzata plasticamente da effetti di luce vagante, con toni bassi e terrosi che via via cederanno al verde bottiglia, con una precisa segnaletica ‘letteraria’, la civetta, il mappamondo, il libro aperto su una pagina abbagliante, la conchiglia, la manus Dei, la maschera… Notevole il corrispettivo nei disegni, in sanguigna o a carboncino. Per La Patellière l’artista contemporaneo di riferimento è Derain, ma anche qui non si lascia deviare: ha troppa fede, in Dio e nell’espressione artistica che ne è lo specchio, per essere fagocitato dal dubbio nichilistico, dal sospetto che la pittura sia un fossile, una lingua morta, che non si possa continuare a esercitarla se non in forma di evocazione spettrale. Per La Patellière «la peinture est bien une magie», ma la magia è bianca…
Nel «Silence des peintres»
Fratello nella disgrazia di La Fresnaye, di Duchamp-Villon, La Patellière ricevette il battesimo di fuoco nelle trincee: ferito due volte gravemente, con pesanti conseguenze. I suoi disegni e acquerelli di guerra alludono più che mostrare, non registrano lo spavento: nel suo teorizzare la «bellezza» (perché fu anche un teorico), La Patellière – suggerisce Dagen nel Silence des peintres, libro dedicato agli artisti del ’14-’18 – sembra voler allontanare l’atrocità di quell’esperienza. Mentre Léger vi incontrò l’‘oggetto’, nella sua pienezza di significati formali e sociali, egli se ne distoglie per costruire, pur con gli strumenti messi a disposizione dal realismo, un mondo separato e visionario. Non condusse per questo una vita eremitica: ritirato, pensieroso, malato, si divideva fra Parigi e Bois-Benoît, dove tornava l’estate, ma era discretamente partecipe, secondo un preciso intendimento, alle controversie artistiche dei suoi giorni.
Nella prima fase della sua breve parabola (poco più di dieci anni), la tornitura massiccia dei volumi, l’organicità ‘romanica’ della composizione, il camaïeu marrone e il prevalere di soggetti contadini sembrano rieditare alla moderna, intesi cioè i processi di sintesi cubista, una precisa tradizione naturalistica, che fa capo ai Le Nain. È il periodo brun, capolavoro Le Repos dans le cellier, 1926, Centre Pompidou. Paul Jamot, nel 1934 curatore (insieme a Sterling) della storica mostra sul Seicento francese Les peintres de la réalité, dove i Le Nain figuravano da protagonisti accanto a La Tour, scriverà di La Patellière «un poeta agreste, come non si era forse più visto fra i nostri pittori dai tempi di Millet». In questa poesia ha un posto speciale l’amore per le bestie: Jean Giono vedrà nell’artista «le doux pasteur des toreaux e des chevaux de l’ombre», Charzat cita persino il Poverello d’Assisi. Ma è proprio questo adorabile investimento georgico dell’arte sua, letto come aristocratica nostalgia, a ritardare la comprensione critica di La Patellière.
Nella distensione contemplativa cominciano a manifestarsi di tanto in tanto trafitture dell’animo, allarmi metafisici. Donne con l’‘appoggio’ melanconico fissano un verde mappamondo; la «mano di Dio» cerca di afferrare il pollo dalla tavola, offre il vaso di fiori alla lettrice interdetta, addita la fulgida pagina di un libro; conversazioni mute, ragazze spaventate da un ‘improvviso’ dall’alto; e il Mar Rosso come una tregenda. La luce, multidirezionale, spiove da un altrove di Verità, scava e proietta ombre drammatiche.
Queste opere preparano il breve momento noir, 1928-’29, quando una grave malattia (viene a coincidere con il fallimento della galleria Katia Granoff, dalla quale La Patellière aveva ricevuto l’agognato sostegno economico, che gli permise l’acquisto della bella casa di Machery, nell’Essonne) sprofonda il pittore in lampeggianti visioni finali: diluvi, comete, soli neri, per i quali si è richiamato El Greco (L’Éclipse del museo di Grenoble). Una livida disperazione morale che può far pensare al nostro Scipione, tolta la ‘corruzione’ della Roma cardinalizia.
Sempre, in La Patellière, c’è la tendenza a isolare determinati oggetti accentandoli in modo sproporzionato rispetto al contesto narrativo: essi vengono ad assumere così un sovrappiù di significato che crea frizioni di tipo surrealista. Ma niente di programmatico e intellettualistico, la modalità sembra originarsi piuttosto da un ‘risucchiare’ metafisico. In alcune tele questa cifra ‘paratattica’ e ‘neomedioevale’ si radicalizza: quadri oscurissimi sotto le trombe del Giudizio, addizioni convulse di simboli in spazi destrutturati. Qui La Patellière partecipa a pieno titolo al breve intermezzo dell’espressionismo francese, che fa capo, più o meno negli stessi anni, al momento figurativo di Jean Fautrier.
Quasi fatale l’incontro con il «Virgilio di Provenza» Jean Giono, che gli commissiona, nel 1930, le illustrazioni per il romanzo Colline, dove il disgregarsi di una comunità contadina provoca una rottura sinistra dell’ordine naturale: il mélange agreste di reale e fantastico, nei Masi Bianchi, non poteva trovare un litografo più appropriato.
A questo punto del suo percorso il pittore, superata la crisi di fine anni venti, ha già inaugurato il suo periodo féerique, l’ultimo. L’esperienza del Midi, di cui è massima testimonianza un capolavoro ‘dechirichiano’ come Baigneuses à Bandol (1928), del museo di Beauvais, aveva contribuito a schiarire la sua palette, adesso più varia sulla dominante verde di cui, associandola a Baudelaire, fantasticò Mauriac: «Comprendo perché questo semplice aggettivo “verde” risvegli una così strana risonanza…». La plasticità risentita ha ormai ceduto il campo a una leggerezza di trattamento, a una sinuosità musicale: le figure si schiacciano in superficie, fluttuano disossate, il registro è decorativo, come, al massimo dell’impegno, nel Concert champêtre, 1929, per la casa del banchiere (e amico) Paul Baudouin.
È comparsa, nel mondo di La Patellière, la figura della maschera, cui è dedicato un preciso gruppo di opere. Jeunes filles travestite si aggirano senza perché in un giardino di notte, nel verde di «così strana risonanza», fra i riflessi lunari e il buio pece, un ombrellino azzurro, fiori di campo soffiati, il tavolino… è una festa o un sabba rococò? Frequente, nella letteratura critica, il richiamo ad Alain-Fournier. Sì: non esiste forse nell’arte moderna un caso altrettanto calzante di sovrapposizione immaginativa, come se lo stesso La Patellière, ragazzo, peregrinando nelle campagne di Nantes, si fosse ritrovato per magia nei luoghi «più desolati» della Sologne, nel «dominio misterioso» in cui perde e ritrova se stesso, dentro il suo provvisorio panciotto di seta, il grande Meaulnes…