«Maccarone, m’hai provocato e io te distruggo, maccarone! Io me te magno», e questa è storia. La nostra. Eppure anche l’Albertone nazionale oggi si farebbe qualche domanda prima di affondare la forchetta in una montagna di maccheroni.

La pasta italiana è mediamente buona ed ha già vinto la sfida globale essendo uno dei cibi più ricercati e consumati al mondo, ma è inutile nascondere che nel piatto c’è qualcosa che non funziona. E che in futuro potrebbe restarci sullo stomaco.

I numeri per ora sono l’unica certezza e forniscono il quadro di un mercato mondiale che è teatro di interessi non sempre confessabili, soprattutto al consumatore.

Nel 2015 nel mondo sono state prodotte 14,3 milioni di tonnellate di pasta.

Sono 48 i paesi che ne producono più di 1.000 tonnellate all’anno (e 52 i paesi che consumano almeno 1 chilo pro capite di pasta all’anno).

L’Italia è paese leader tra i produttori con circa 4 milioni di tonnellate all’anno (seguono Usa con 2 milioni, Turchia con 1,3, Brasile con 1,2 e Russia con 1,1).

L’Italia è anche il paese con il più alto consumo pro capite del mondo: gli italiani mangiano più di 25 chili di pasta all’anno (16 i tunisini, 12 i venezuelani, 11 i greci e 9 gli svizzeri).

Con questi numeri è anche leader del mercato: nel 2016, per il dodicesimo anno consecutivo, l’export della pasta ha avuto il segno più (6%). L’Associazione delle industrie e della pasta italiane (Aidepi) certifica che nel 2016 l’Italia ha esportato 2 milioni di tonnellate di pasta per un valore che supera i 3 miliardi di euro.

Tutto bene? Non proprio.

C’è un problema che ne richiama altri e che fa della pasta uno degli alimenti più significativi per comprendere le insidie di un mercato agroalimentare globale che per sua natura non può convergere con la sostenibilità ecologica del sistema produttivo: all’Italia manca circa il 40% di grano duro per soddisfare la produzione di pasta necessaria al mercato interno (e all’export).

Negli ultimi 15 anni le coltivazioni di grano duro si sono ridotte di 500 mila ettari. Per questo, spiega Coldiretti nel suo atto d’accusa contro il grano straniero, l’Italia nel 2015 ha importato dall’estero circa 4,3 milioni di tonnellate di frumento tenero e 2,3 milioni di tonnellate di grano duro (utilizzato per la pasta).

Il risultato, denuncia l’associazione, è che un pacco di pasta su tre è fatto con grano che arriva dall’estero, senza obbligo di indicare la provenienza sull’etichetta (alcune tra le marche più famose miscelano grano italiano e straniero).

Non è solo una questione di sovranismo cerealicolo per tutelare gli agricoltori nostrani strozzati dai prezzi imposti dal mercato globale, è anche un problema di salute e di politica internazionale.

I principali paesi che forniscono grano all’Italia sono europei.

La Francia, con 350 mila tonnellate nel 2015, poi l’Austria con 176 mila tonnellate nel 2015 e l’Ungheria che nel primo semestre del 2016 ce ne ha vendute 165 mila tonnellate. Seguono Romania, Polonia, Ucraina, Turchia, Cipro.

Complessivamente dal resto del mondo (dati 2015) l’Italia ha importato 2,3 milioni di tonnellate di grano duro e ne ha esportate più di 181mila, soprattutto verso il Maghreb (per il cous cous).

L’Italia, dunque, anche se non produce abbastanza grano duro per soddisfare il suo mercato, è un paese che comunque ne esporta.

Un paradosso facile da spiegare: il frumento nostrano è molto richiesto e viene venduto a prezzi più alti, mentre il grano importato costa meno ed è qualitativamente meno pregiato. E in qualche caso anche dannoso per la salute, come denunciano numerose associazioni ambientaliste che puntano il dito contro il grano canadese.

La questione canadese introduce scenari preoccupanti anche in virtù del fatto che il paese di Justin Trudeau si sta imponendo tra i primi fornitori di grano all’Italia: dal Canada abbiamo importato 329 mila tonnellate nel 2015 e 383 mila tonnellate nel primo trimestre del 2016.

Problema numero uno.

In Canada, per accelerare la maturazione della spiga, prima della raccolta viene utilizzato il glifosato come disseccante, una pratica vietata in Europa (il glifosato è l’ingrediente principale dell’erbicida Roundup della Monsanto che secondo l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro è potenzialmente cancerogeno e che è al centro di una controversia internazionale: entro la fine di quest’anno l’Unione europea dovrà decidere se vietarlo o meno).

Tracce di erbicida, questa la preoccupazione, potrebbe essere presente nei prodotti alimentari derivati dal grano – pasta “made in Italy” compresa. In più, il grano canadese per via dell’umidità del clima viene aggredito dalle micotossine, un fungo patogeno contaminante che ad alti livelli di concentrazione può agire a livello gastrointestinale.

La presenza, pur nella norma, di questi contaminanti – glifosato, micotossine e cadmio – è stata riscontrata in un test effettuato su alcuni campioni di pasta italiana dall’associazione GranoSalus.

Il problema numero due, oltre a complicare la faccenda sul piano della sicurezza alimentare, introduce una questione di politica internazionale.

Con l’entrata in vigore del Ceta (l’accordo commerciale tra Unione europea e Canada che non è ancora stato ratificato dal parlamento italiano) le grandi aziende nord americane dell’agro-business avranno a disposizione nuovi strumenti per attaccare i rigorosi standard europei a tutela della qualità del cibo.

È evidente, come spiega l’Associazione italiana agricoltura biologica (Aiab), che una futura armonizzazione delle norme canadesi ed europee potrebbe rimettere tutto in discussione. Le criticità da affrontare a livello parlamentare non riguardano solo il grano duro al glifosato: «L’armonizzazione delle norme verso un minimo comune denominatore, previsto nell’accordo, accetta di fatto lo spostamento verso il basso delle regole di produzione e degli standard di sicurezza alimentare. In particolare ci verrebbero imposti gli ormoni della crescita nelle carni, l’uso di antimicrobici nel lavaggio, una liberalizzazione degli Ogm e un’etichettatura ancora meno trasparente».

Gli stessi industriali canadesi del resto non ne fanno mistero. Cam Dahl, presidente di Cereals Canada, ha minacciato ritorsioni (un’azione legale al Wto) qualora l’Italia dovesse imporre l’etichettatura d’origine sui pacchi di pasta.

Di fatto il contenzioso è già aperto perché in Italia l’obbligo di etichettare la provenienza del grano dovrà, o dovrebbe, scattare il 17 febbraio.

Il decreto però è stato impugnato dall’Aidepi con un ricorso al Tar del Lazio che somiglia a un’arrampicata sugli specchi.

L’associazione delle industrie dei pastai ritiene che «l’obbligo dell’indicazione di origine del grano nella pasta sia sbagliato: promette trasparenza ma disorienta il consumatore e invece di sostenere una filiera di grande valore per la nostra economia, come quella della pasta, rischia di affossarla».

Nel frattempo Barilla (azienda leader in Italia con ricavi consolidati per 3,4 miliardi di euro e nel 2016 e utile netto in salita a 371 milini di euro) si è affidata a Bebe Vio per riorientare il consumatore con uno spot che ammette il ricorso al grano straniero, che però è buono e di qualità: «Ottimo, grande, mi hai convinto, dammi cinque…».

Paolo Barilla, vice presidente dell’omonimo gruppo, su Rai1 è stato meno simpatico: «Per l’industria tutto dipende da che tipo di prodotto produrre e a quali costi, perché se noi dovessimo fare un prototipo di pasta perfetta, in una zona del mondo non contaminata, senza bisogno di chimica, probabilmente quel piatto di pasta invece di 20 centesimi costerebbe 2 euro. Una pasta a glifosato zero è possibile ma solo alzando i costi di produzione».

Più chiaro di un’etichetta.