La storia è piuttosto scarna, gli accadimenti minimi e riconoscibili nell’ampiezza dell’esperienza amorosa, misura senza contorni precisi, eppure comprensibile nell’esorbitanza. Eppure c’è qualcosa d’altro che svetta nella intenzione di Una vita più vera, il romanzo di Inés Garland (Bompiani, traduzione di Sara Cavarero, pp. 112, euro 12), ed è la rappresentazione dell’eventualità. Si tratta di quel che è in effetti e ciò che poteva essere, quando cioè gli incontri sono significativi ma arrivano troppo presto o troppo tardi. Il tempo è un condizionale perpetuo, malinconico, talvolta ingrato. Resta come un brusio intorno a quelle sembianze di possibili amanti che non lo saranno invece mai. O che lo sono stati, oppure lo diventeranno prima o poi, seppure nel terrore di mutare il circostante per continuare a trattenerne incanto e potenza.

COME SI PRESENTA a ciascuna e ciascuno la forma di una passione grande? In quale terra di mezzo si determina l’insorgenza dell’incontro? Perché a un’altezza simile amore e passione drammaticamente coincidono. Infine che posto ha il tumulto che spazza via tutto, casualità e possibilità di cognizione, e si rapprende in una irresistibile intimità? Secondo Garland, scrittrice argentina che ha già sondato il tema della relazione tra i sessi, c’è una seconda occasione, ricucitura del passato adolescente tornato a fare visita nell’età adulta.
In quella brezza fresca, che nella maggior parte dei casi si rintraccia nella frazione di un trascurabile «chissà» senza soluzione, echeggia la forza di una tormenta di nome e di fatto, definendo l’arco della narrazione. Una vita più vera è anzitutto ciò che cerca e si augura la sua protagonista, là dove interna alla rivolta amorosa c’è un punto di prossimità che facilmente si può fantasticare sia la verità.

Il fraintendimento sta nello scambiare verità e autenticità, è quest’ultima che si sperimenta quando ci si trastulla con corpi in apparenza a disposizione di una sessualità senza limiti. Di fatto, invece, si gioca con uno sfinimento. Con un eccesso inconsumabile e senza futuro. Della voce narrante che ci spiega cosa un giorno l’ha frastornata, non sappiamo quasi niente, neppure come si chiama. La protagonista di questo eccentrico libro, a metà tra memoir e taccuino di appunti, la incontriamo a poco più di 40 anni, veniamo informati che è una grande lettrice, che si ammalia con pazienza sui dettagli ma ne ignoriamo il resto dei caratteri. È però concessa a chi legge una confidenza sconfinata, tanto che di lei conosciamo fino ai più segreti recessi dell’anima e del corpo.

Il gioco delle parti comincia fin dalle prime righe quando si scopre che P., vicino di casa e amico d’infanzia di 5 anni più grande di lei, la contatta su un social network chiedendole un appuntamento. Sono trascorsi trent’anni dall’ultima volta che si sono visti e ne passano altri due prima che lei si accorga del messaggio.
Si solleva nella scrittura una lenta esplorazione di maree notturne e tiepide, miste a intervalli e silenzi, pagine bianche e spesso vergate da poche frasi sono le attese che vanno a delineare l’anatomia di chi diventa d’improvviso precipizio dinanzi a cui ci si ritrova quando anche il corpo non basta.

QUANDO LA BOCCA di lui, che Garland descrive con definitiva e soave fermezza, è linguaggio ma soprattutto incastro muto. Perché lui bacia come mangia, «senza pausa, senza distanza». Tra le gambe e per assaggiare ogni millimetrico umore di chi sta amando. Questa del sapore spesso non gradevole è una reciprocità che diviene poetica del disfacimento e che Garland sceglie di individuare tra cibo e nutrimento per assumere il collasso di una deprivazione bambina. Di una oralità come luogo struggente e bisognoso che muove tra le labbra piacere e pianto. Per raccontare cosa, all’orlo di una esistenza già strutturata e solida, si incrina nella materia di due corpi che si toccano e divengono sponde a un tempo fluttuanti e aguzze. Si infastidiscono del proprio smarrimento, si moltiplicano, si trovano nella realtà ogni venerdì.

La quotidianità è solo immaginata, futuribile ma senza sufficiente audacia per sceglierla. E se ne capisce presto il motivo: «Il desiderio – secondo la scrittrice – trasforma tutto e spuntano vecchie dipendenze, cose che non hanno nulla a che vedere con il presente o con le persone del presente. Ho il terrore della fame, della sensazione d’abbandono, di quella pulsione di morte che ti prende alla gola per il darsi amoroso. Penso sempre troppo».
Nonostante l’ingombro molesto, le parole della ragione sono poche, presente invece la musica che puntella l’erotismo e il gioco dell’assenza. Tra i molti rimandi al testo ce n’è uno, tratto da una canzone recente, che più di altri situa l’intensità intima che sta tra l’eventualità e l’intenzione: «Yo aquí te espero, con mi cajita de la vida. Ti aspetto qui, con la scatoletta della mia vita». Il tempo non può che essere trafitto, finalmente, dalla contezza che quel che di più sorprendente capita non è in mano nostra.

UNA RISCOPERTA puntuale di ciò che ci si può autorizzare a essere quando si prende per mano se stessi in un tragitto che si sa bene non durerà per sempre ma che sarà la più solenne delle trasformazioni. Quando desiderare l’altro, ed essere desiderate, non è ancora uno sfibrante lavorio della volontà bensì un lieve rimettere al mondo chi avremmo sempre voluto essere. Una vita più vera è allora lode alla voracità e alla moltitudine che ci assedia, alle fughe non negoziabili e ai ritorni carichi di promesse non mantenute. Ed è qui che a esplicitarsi compare la frattura immedicabile tra ciò che si è, quel che si dice e si pensa e infine ciò che si sente: «Quella che sono è più difficile di quella che avvolge tra le gambe, è più irritabile, più instabile, vuole essere adorata, presa, cercata. Quella, quando si sente disprezzata o ignorata o data per scontata, si chiude come un riccio e diventa inavvicinabile, irraggiungibile, impossibile, si offende e si ritira nella profondità della sua ferita».

Come a dire che l’eventualità di quanto accaduto o presagito si colloca in una regione più complessa del visibile che va intercettata senza affrettarsi. È una zona oscura e marina che non si coagula, fuori dai contratti, che possiamo dimorare in molti modi per i giorni che rimarranno; trovandovi riparo e nascondimento, per esempio, evitando di accoglierne le contraddizioni. Possiamo anche accendere la luce e per questo vederci più chiaro, nella libertà di rinunciare alla veggenza. Una vita insomma più parca e prudente, forse più infelice, certamente meno vera ma più facile da gestire.

OPPURE addestrarci alla penombra, al chiaroscuro di una radura da camminare, dilapidare ogni ragionevole sicurezza dei corpi e della loro levigata apparenza fenomenica, mandare all’aria ogni sensato insegnamento e visitare uno spazio che non ci si ricorda più quando e come si è incrociato. In quei paraggi, potrebbe non esserci nessuno ad attendere il ritorno della «figlia prodiga» – così si definisce la protagonista del romanzo – eppure, per amore, è lei che ha circondato il bordo del proprio spavento. E ritrova se stessa, nella strada più lunga che non è il destino ma che è di nuovo tutto un percorrere.