Sarantis Thanopulos: «Monica, tu leghi eros e politica tramite il nomos musicale, la distribuzione errante ma armonica del desiderio nello spazio/pascolo dell’esperienza umana condivisa, la solitudine nel suo schiudersi all’incontro con l’altro. Il canto/nomos crea un’intendersi, sentire erotico esposto all’imprevisto e al rischio, la trama di una partitura che rende possibile l’uso della voce, parola come mezzo di riconoscimento reciproco tra i soggetti desideranti. La distribuzione “musicale” del desiderio nello spazio comune, implica giustizia, armonia di accordi che non amano il calcolo e non disdegnano i contrasti e le dissonanze. Essa irradia dall’incontro erotico tra i corpi degli amanti dove gli sconfinamenti del desiderio non sono strutturanti, stabili. Si inseriscono in un’intesa che accorda tra di loro le due correnti opposte della sessualità (possessiva e masochista) secondo l’esigenza intrinseca del desiderio di mantenersi vivo, facendo restare vivo, desiderante e desiderabile, il suo oggetto.La relazione erotica è il fondamento etico delle relazioni politiche perché presume la parità dei soggetti desideranti. Mi chiedo perché Platone diffidasse tanto della tragedia, la vera cerniera tra eros e polis».

Monica Ferrando: «Tu giustamente cogli nell’articolazione erotico-musicale del nomos quella fluida giustezza in grado di scomporre e ricomporre le relazioni umane secondo una logica naturaliter politica. Prendere sul serio questa logica, che è intrinsecamente musicale perché retta da misure non arbitrarie, a differenza di leggi dettate da un potere politico centrale secondo criteri di censo, di prestigio, di appartenenza etnica e religiosa; che segue proporzioni fatte di differenze e non del loro sacrificio a un ideale umano ritenuto il migliore, obbliga a saggiare la tenuta di quelle che sembrano le colonne portanti della civiltà occidentale. Una di queste colonne è la tragedia che, come è noto, Platone non disgiunge dalla commedia. Non par condicio artistica, ma per la necessità – politica – di impedire l’imperialismo estetico di cui la tragedia è l’artefice civica e di cui ogni potere, da sempre e fino ad oggi, ha assoluto bisogno. Così si cura la passività indotta da un farmaco mentale solo omeopatico – come capirà Aristotele – che trasforma cittadini virtualmente poietici, guidati da eros secondo la visione attivante di Diotima verso una bellezza senza immagini, in spettatori: iconoduli, prevedibili, soddisfatti di sé, e quindi ingiusti e benpensanti».

Sarantis Thanopulos: «La commedia fa del riso una forza liberatoria se, emancipandoci da schemi mentali e emotivi uniformanti, abolisce i condizionamenti psichici che sostengono i rapporti di potere. Anticipa così in noi l’effetto “catartico” della sconfitta dell’autoritarismo. La tragedia fa la stessa cosa in modo diverso. Crea, attraverso lo sviluppo dei sentimenti tragici (terrore, compassione e lutto), il cui equilibrio “musicale” è fondamentale, uno sconvolgimento dell’assetto erotico, affettivo e mentale degli spettatori. Lo sconvolgimento sfocia in un senso di libertà, se rimette in movimento dentro di loro la relazione di desiderio, dove essa maggiormente rischia di arenarsi».

Monica Ferrando: «Certo, se si intende una liberazione del pensiero da ideali estetici che pretendano di guidarlo puntando a piacergli (la tragedia nasce ad Atene col culto dell’eroe e dei tribunali, entro una logica sacrificale che, a differenza dell’orfismo, non mette in questione i miti della polis). Solo così può nascere una politica erotica scevra da tirannide (in famiglia e fuori). Prima di Platone lo sapeva Solone, per il quale il nomos è canto, la donna può difendersi, il povero è sgravato dai debiti, il profugo è accolto; ma la tragedia è rischiosa sostituzione della libera e imprevedibile articolazione del pensiero con la sua finzione».