Se vi viene voglia di fare politica, raccomando la lettura del libro di Luigi Manconi, Corpo e anima (minimum fax, pp. 232, euro 13). Come la vita del suo autore, è un volume che tracima di nomi e biografie, date e luoghi, musica e libri, ragionamenti e sentimenti: Manconi già aveva narrato la sua caleidoscopica biografia attraverso il suo «ingordo e irriducibile amore» per le canzoni (La musica è leggera, il Saggiatore); ora lo fa mettendo a sistema un’azione politica che è andata facendosi nel tempo sempre più consapevole, attraverso un empirico imparare facendo, capace di coniugare in giuste dosi passione e ragione, visionarietà e coscienza del limite, sconfitte e successi.

Nessun reducismo e nessuna abiura. Semmai la rara capacità di fare tesoro di un «accumulo, anche confuso e disordinato, di letture azioni esperienze e conoscenze», mettendovi finalmente ordine. È questa una promettente chiave di lettura del libro: il «governo del disordine». È cosa che Manconi apprende già nella gestione dei cortei degli anni Settanta, in equilibrio precario sul filo teso tra scontro e mediazione; sperimenta, poi, nella propria vita spericolata, attratto e coinvolto «fino alla dissipazione» da infinite curiosità, interessi, relazioni; pratica, infine, nella sua attività di governo (da sottosegretario alla Giustizia) e di parlamentare (portavoce dei Verdi prima, ora riluttante senatore Pd). Un mettere ordine che – nevrosi rivelatrice – emerge dalla confessata ossessione per l’esattezza e per il ritmo narrativo della parola scritta, anche ora che può solo ascoltarla.

Il libro ci restituisce il risultato di questo lavoro, a un tempo, esistenziale e politico: l’idea di una dinamica della vita sociale fondata sulla triade progressiva «conflitto-mediazione-nuovo equilibrio». Una sequenza riconoscibile nella prassi politica di Manconi, dove trovano spazio la disobbedienza civile, la clemenza come strumento di governo, la strategia di riduzione del danno, l’emendamento risolutivo, la ragionevole deroga alla cecità della regola astratta, il garantismo preso sul serio (come capita solo a chi vi approda non strumentalmente, ma attraverso un’autentica catarsi).
È la stessa idea di legalità a uscirne rivitalizzata, rispetto alla sua declinazione oggi maggioritaria: il «travaglismo» come sudditanza assoluta alla legge, meglio se penale, meglio ancora se incarnata da un pubblico ministero eletto a moderno angelo vendicatore. Del suo successo a sinistra e del conseguente bullismo legislativo, Manconi indaga con acutezza le rancorose ragioni, motivando così nei suoi confronti una condivisibile idiosincrasia.

La legalità, invece, è limite al potere, è violenza domata. A questa acquisizione del costituzionalismo liberale, Manconi dà – alla lettera – corpo. Quel limite che anche la legge incontra nel suo farsi è, per lui, «il corpo prigioniero», di cui va rispettata la dignità intesa come «volontà di preservare fino all’ultimo una qualche qualità della vita della persona». Non principio astratto, dunque, semmai regola concreta, addirittura somatizzata; non generica dignità «umana» bensì «personale», in quanto propria di ciascun individuo e da tutelarsi a prescindere, perché – direbbe il costituzionalista – la dignità non si acquista per meriti né si perde per demeriti.
Sostiene Manconi: è il corpo la «sede fondativa dei diritti».

È sull’inviolabilità dei corpi che si gioca «la legittimazione giuridica e morale» dell’obbligazione tra Stato e cittadini. È nell’autodeterminazione sul proprio corpo malato, fattosi prigione, che residua la propria libertà personale. E’ il desiderio di superare la sofferenza umana che muove l’azione politica, «e il dolore umano ha una sede, che è il corpo fisico». E’ dunque un coerente lapsus calami che Manconi, raccontando i duelli quotidiani con la propria cecità, ne parli come di «un corpo a corpo».

La teoria convince, come anche le coerenti battaglie ingaggiate in suo nome, sempre muovendo da biografie individuali tragicamente esemplari: come quelle di Eluana Englaro, Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi. Il corpo prigioniero viene così rimesso al centro della politica, perché «il nascere, il procreare, l’ammalarsi, il morire» riguarda tutti, molto più di una scissione nel centro-destra o dell’ennesimo tweet ministeriale.

È un (pessimo) segno dei tempi che l’agire politico di Manconi ne provochi una dichiarata solitudine parlamentare, a rischio di precipitare nell’eremitaggio politico. Eppure questo libro dimostra come nello «schermo cieco della (PROPRIA) mente» il suo autore riesca a proiettare cose che in troppi hanno smesso di guardare. Così, nella sua cecità, Luigi Manconi si rivela tra i pochi politici in servizio ancora capaci di vedere lontano.