Si sa. Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. E forse anche quelle della santità. Dietrich Brüggeman mette in scena in quattordici quadri la via crucis di Maria Göttler (nome e cognome molto trasparenti), quattordicenne che si appresta ad accogliere il sacramento della cresima e a diventare un soldato di Cristo. Risolti per la maggior parte in inquadrature fisse in piano sequenza, il regista deroga alla regola solo in tre casi, nell’episodio della chiesa durante la celebrazione della cresima, in ospedale mentre la protagonista muore fuori campo non vista grazie a un décadrage e alla fine, al cimitero, quando un dolly dichiara in maniera decisamente esplicita che la ragazza è ascesa al Cielo. O forse no. Già, perché Brüggeman, nonostante corteggi con grande impegno un cinema trascendentale, fatica a trasmettere la vertigine dello scandalo del sacro o, meglio, di ciò che trascende la sfera della comprensione umana. La passione di Maria, adolescente che desidera offrire la sua giovane vita a Dio affinché il fratellino Johannes, forse affetto da autismo, possa iniziare a parlare, non convince mai del tutto.

Il fascino un po’ acerbo, e tutto di intenzione di Kreuzweg, sta nell’idea che fissità equivalga a trascendenza. Brüggeman ambisce allo stordimento dell’indicibile raggiunto nell’ascesi formale, privando però il suo film dell’ossigeno necessario a farlo vivere, pulsare come organismo cinematografico (mentre è noto che Dio come il Diavolo si muove negli interstizi). Certo, il film possiede una potenza massimalistica innegabile, plumbea, e il gioco della corrispondenza delle stazioni con quelle della protagonista è orchestrata con grande intelligenza.

Nel primo quadro, ossia Gesù condannato a morte, Padre Weber (l’ottimo Florian Stetter) si scaglia contro il Vaticano II e Maria dichiara la sua intenzione di essere un soldato di Militia Christi. La prima caduta di Gesù coincide con la conoscenza di Christian, che vorrebbe frequentare Maria e l’invita nella sua parrocchia per le prove con il coro di cui lui fa parte. L’episodio del Cireneo è reinventato nella scena della confessione, forse il momento più intenso e disturbante di Kreuzweg.

Il nocciolo politico del film risiede nel settimo quadro, coincidente con la seconda caduta di Cristo, dove l’integralismo di Maria implode durante l’ora di ginnastica facendo affiorare il convitato di pietra del film: la tolleranza. I suoi limiti e la sua pratica. Il regista, insomma, traslitterando la passione di Cristo nell’oggi, si pone il problema della cittadinanza della fede nel contemporaneo confondendo, però, religione, ossia il culto organizzato e la comunità di fedeli che ad essa si riferisce, e sacro. L’ambiguità del film risiede tutta in questa sua clamorosa indecisione. Il film si offre allo sguardo attraverso il suo approccio osservazionale.

E la contraddizione di Brüggeman è nel volere evocare il sacro da un discorso eminentemente politico (motivo per cui da un lato irrita il décadrage dal letto della protagonista che muore sul fratello Johannes mentre diverte l’infermiera che un attimo prima tira fuori dalla bocca di Maria morente l’ostia consacrata che la soffoca). Invece il miracolo, soprattutto al cinema, non si spiega, lo si fa vedere all’opera. E lo si mostra, stando alla lezione di registi come Pialat, come discontinuità del reale, come possibilità di uno scandalo, come segno dell’occhio che vede troppo o troppo poco.

Brüggeman, purtroppo, ancorato alla sceneggiatura della sorella (che appare in un cameo da infermiera e, interrogata da Maria, dichiara di credere in «qualcosa» ma non in Dio) resta prigioniero del suo progetto formale e ideologico senza riuscire a compiere il balzo, filmico, verso l’ineffabile. Kreuzweg è anche un film potente ma irrisolto, che mentre da un lato progetta di lasciare le porte aperte all’indicibile, le chiude senza remore. In questo senso, piuttosto che corteggiare Dreyer, modello irraggiungibile, sarebbe stato utile ripassare la lezione di Ulrich Seidl.