A Roma arriva per la prima volta un capolavoro assoluto del teatro musicale come la Kát’a Kabanová di Leoš Janácek. Nei teatri di Europa e del mondo è di repertorio. Nel 1998 a Salisburgo una splendida edizione messa in scena da Marthaler con Angela Denoke straordinaria protagonista. Nove anni prima a Firenze la mise in scena Ermanno Olmi, uno spettacolo disturbato da un attore che tra un quadro e l’altro spiegava lo svolgersi della vicenda. Uno spettacolo da dimenticare. Invece è completamente riuscita la rappresentazione romana, realizzata in collaborazione con il Covent Garden di Londra. Firma la regia Richard Jones. Lo spettacolo, andato in scena a Londra nel 2019, ha ottenuto il premio Laurence Olivier come migliore nuova produzione operistica dell’anno. Meritato. Già Marthaler aveva messo in evidenza, a Salisburgo, la costrizione, il soffocamento, dell’ambiente piccolo borghese in cui vive la protagonista. Kát’a è oppressa dalla Kabanicha, madre del marito Tichon. Accoglie perciò come una fuga, una liberazione, l’amore di Boris. Ma, sopraffatta dai sensi di colpa, confessa tutto al marito e alla suocera.

L’ESCLUSIONE, la condanna sono durissime e lei si getta nel Volga. Solo allora Tichon ha il coraggio di sputare in faccia alla madre la sua ingiustificata crudeltà: voi l’avete ammazzata! La Kabanicha non si scompone: ma che vai dicendo? La vicenda è quella dell’Uragano di Ostrovkij. Un tema quasi ossessivo della letteratura e drammaturgia russa: l’oppressione di una società tradizionalista sugli individui che non stanno alle regole. Da Dostoevkij a Tolstoj a Cekhov, un tema ricorrente. Jones costruisce moduli scenici mobili che rappresentano via via l’interno, soffocante, di una casa borghese, il suo esterno minaccioso sulla strada e la riva del Volga, bastano due, tre uomini che lanciano in avanti una canna da pesca per evocare il fiume. Ma il vero miracolo sta nella musica. Janácek nasce nel 1854 ma raggiunge tardi la consapevolezza del proprio stile personalissimo. Kát’a Kabanová è del 1921.

GLI ENTUSIASMI giovanili per le melodie popolari si sono trasformati in una ricerca approfondita delle radici di quelle melodie. Come farà Bartók per le melodie ungheresi. E ne scandaglia le origini nella lingua, il ceco. C’è, per il compositore moravo, una «melodia del parlato», in ogni lingua, che sta alle origini dell’invenzione musicale. Come Monteverdi, e poi Musorgskij, Debussy, Britten, Janácek conia piccoli moduli melodici che nascono dalla dizione stessa delle parole. Non sminuisce, come si crede, il valore della musica rispetto alla lingua, ma cerca la melodia che già è insita nella lingua, considera insomma già musica il linguaggio. In questo, musica e poesia coincidono. E la musica di Janácek tocca spesso vertici altissimi di poesia. Ma ci vogliono gli interpreti giusti per tirarla fuori. E qui ci sono. Dal direttore, David Robertson, che mette in evidenza il trapassare della melodia dalle voci agli strumenti, in una sorta di contrappunto insieme ritmico e melodico, agli interpreti sulla scena, uno più bravo, più intenso dell’altro. Sono molti, ma vanno ricordati con gratitudine soprattutto la straordinaria, intensissima Corinne Winters, nella parte della protagonista, l’inflessibile spietatezza di Susan Bickley che è Marfa, la madre di Tichon, un Julian Huibbard perfetto nel disegnare la figura di un figlio inetto e sottomesso alla madre, Sam Furness e Carolyn Sproule, nei ruoli di Váca e di Varvara. Il pubblica ha applaudito tutti con calore.