Erto, paese delle Alpi friulane, ma anche sinonimo di ripido, scosceso, arduo. In questa doppia identità etimologica il film di Penelope Bortoluzzi, La Passione di Erto, percorre sentieri paralleli e tortuosi come tornanti di montagna per raccontare la via crucis, reale e immaginaria, di questo paesino di trecento anime che ogni anno mette in scena la Passione di Cristo. E lo fa sfidando le autorità ecclesiastiche, e le conseguenze della tragedia di una valle ai piedi della diga del Vajont che nel 1963 crollò uccidendo duemila persone.
Tra gli abitanti e i loro alter ego evangelici, il paese nuovo e quello vecchio, la pianura e la montagna, La Passione di Erto segue una comunità crocifissa e la sua resurrezione, alternando le voci del presente all’eco dei sopravvissuti intrappolati nel bianco e nero dei documenti visivi dell’epoca. Storie che si intrecciano, ricordi dolorosi, l’ostinazione di una resistenza tra coloro che sono voluti restare nel paese ormai abbandonato e chi invece ha scelto di «scendere a valle». «Molta parte degli archivi sono di natura ufficiale, repertorio di telegiornali, ma alcuni sono materiali inediti, trovati negli archivi Rai, che ho fatto digitalizzare. É stato molto interessante passare da queste immagini, con grandi nomi del documentario come Michele Gandin e il suo Perchè non se ne vanno?, praticamente inedito nella sua filmografia, ai filmati quasi etnografici che Olivia Pellis ha messo a disposizione» racconta Penelope Bortoluzzi, veneziana di nascita che da anni è «emigrata» a Parigi, dove vive e lavora con la sua casa di produzione – fondata insieme a Stefano Savona – la Picofilms (che ha prodotto tra gli altri Tahrir di Savona, Il muro e la bambina di Silvia Staderoli, In attesa dell’avvento di Felice D’Agostino e Arturo lavorato con cui stanno lavorando al nuovo progetto).
Incontriamo Penelope Bortoluzzi a Milano, dove La Passione di Erto è stato presentato all’interno della rassegna «Il cinema italiano visto da Milano» – ultima proiezione oggi pomeriggio alle 16.00 al MIC, prima di partecipare in concorso al prossimo Trento Film Festival. A cui seguirà un mini tour veneto tra Padova, Venezia e Belluno il 5, 6, 7 maggio.

Le immagini di Olivia Pellis, girate negli anni ’70, colpiscono in modo particolare per il modo in cui documentano una rappresentazione sgargiante di barbe posticce e colori accesi che ricorda i kolossal biblici di Cecil B. DeMille.

Questa signora di Gorizia aveva girato molti Super8 in diversi paesi friulani accompagnando un’antropologa locale nelle sue ricerche. Dei filmati di Olivia Pellis mi ha subito impressionata la grande cura nelle riprese, forse dovuta proprio alla missione antropologica. Ma anche l’insistenza sui dettagli, e la precisione dei frammenti che la grande maggioranza degli home movies spesso tralascia. Sono illuminati alla perfezione grazie a cavi di 40 metri che la signora si trascinava dietro. Materiale preziosissimo insomma, anche da un punto di vista sonoro.

Subito dopo l’introduzione di repertorio, il film si concentra sulle prove «teatrali» degli ertani; sono tutti non-attor, e declamano le loro battute in uno stile straniato che ricorda i lavori fatti a Buti di Straub&Huillet.

Sicuramente c’è un legame con i film di Straub&Huillet girati in Toscana. Fin da subito ho avuto la fortuna di essere accolta in questa specie di comunità-circolo iniziatico, e dopo aver assistito la prima volta alle prove nel municipio, che all’epoca era abbandonato, ho capito che la Passione sarebbe stata il cuore del film. Mi sembrava di assistere alla nascita del teatro, e all’auto-rappresentazione di una comunità; incontrare persone che hanno il teatro «dentro» senza saperlo mi è sembrato un vero e proprio regalo. Nelle loro voci sembra di sentire tutti coloro che hanno interpretato lo stesso ruolo in passato, mentre ognuno di loro, sin da piccolo ha sognato di essere un personaggio evangelico. Hanno un ammirazione per gli attori che li hanno preceduti come se fossero De Niro.

Oltre alla bisogno di «resistenza» delle tradizioni di un tempo, nel film si percepisce un leggero scarto fra la naturalezza delle prove e la serietà della processione pubblica. Come lo te lo spieghi?

Prima del disastro questa rappresentazione veniva allestita per gli ertani o per gli abitanti dei paesi limitrofi. Era una sorta di gioco intimo fra compaesani on un valore fortemente «interno». Già durante la costruzione della diga però, ha cominciato a arrivare molta gente di fuori, cosa che ha reso la Passione un po’ più pubblica, quasi uno show. L’affluenza è aumentata dopo dopo il disastro del Vajont, i turisti turisti si accalcavano nelle strade. Mi interessava documentare l’evoluzione della tradizione stessa, il suo essere un’usanza non fossilizzata ma in continuo divenire. Anche per questo le prove sono ancora più importanti, è lì che si vede cioò che c’è stato e ciò che resiste ancora.

Il racconto della tragedia del Vajont sorprende per la sua attualità. É come se la gestione del post-catastrofe in Italia fosse un’eterna ripetizione, basta pensare a all’Aquila.

Si è sempre parlato tantissimo del Vajont e, giustamente delle cause e degli errori umani che hanno causato il crollo della diga. Assodate una serie di cose rispetto ai vari perché, non volevo però concentare il film solo sul disastro, pure se mi avrebbe permesso di affrontare una dimensione, purtroppo, tipicamente italiana – tu citi L’Aquila, ma prima ancora c’è il Belice. Ricordo una frase di Silone: «Se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà in un terremoto o in una guerra, ma in un dopo-terremoto o in un dopo-guerra». A volte è la gestione che amplifica i danni o aggrava la situazione. Erto è un paese emblematico di tante cose, e lo è quasi in maniera caricaturale: prima lo spostamento nei prefabbricati poi la ricostruzione, a qualche chilometro di distanza, basandosi sui prefabbricati stessi che esistono ancora oggi ma in muratura.

Il tuo primo film, « Fondamenta delle convertite» (2005), raccontava la claustrofobia di un carcere femminile: qui siamo di nuovo in una comunità ma di uomini chiusi tra le proprie montagne.

Mi piace raccontare ambienti chiusi, e la speciale «teatralità del chiuso» che esprimono: la messa in scena di se in un ambiente pubblico che è anche intimo è l’elemento che accomuna i due film. Nel carcere della Giudecca di Venezia m’interessava far parlare le celle aperte durante il giorno dove si creavano entrate e uscite quasi teatrali. Per cancellare la claustrofobia delle mura, sia le detenute che le agenti assumono un tono di voce diverso.