Il baseball, come per la maggior parte dei cubani, era una delle passioni del Comandante. E non solo perché il figlio Tony per anni era stato il medico sociale della nazionale caraibica con mazze e visiere. Fidel era un lanciatore mancino, pare molto dotato. L’altezza lo aiutava a caricare la forza da imprimere alla pallina. E voci – mai confermate dal Lider Maximo – circolavano di un provino rifiutato per una società americana. Era prima della Rivoluzione. Il baseball però piaceva anche al Che. E i due spesso, assieme al comandante Camilo Cinefuegos si divertivano nello stadio Latino, la casa dello sport di Cuba.

Da ricordare anche l’esibizione assieme a Hugo Chavez in Venezuela, con la divisa cubana, 16 anni fa. E un su un campo di baseball si era incrociato con l’ex presidente americano Jimmy Carter, qualche tempo fa, prima visita di un ex inquilino della Casa Bianca a Cuba. La passione per lui era stato anche fonte di delusione, lo sport era anche uno strumento contro l’imperialismo. E mai accettato il flusso di campioni cubani verso la Major League Baseball del nemico giurato. I chicos, i suoi ragazzi cubani, andavano verso i dollari americani.

Ora sono oltre 30 i cubani ingaggiati nel professionismo a stelle a strisce. E a differenza del passato, non sono costretti a versare gran parte dei loro guadagni al governo cubano. Ma il Lider Maximo amava anche lo sport olimpico. Sebbene ammalato non si era perso nulla in tv dei Giochi brasiliani e non aveva esitato a far trapelare la sua soddisfazione per l’assegnazione della competizione a Rio de Janeiro, le prime in Sudamerica. Andava parecchio orgoglioso della scuola cubana di pugili. Nel 1976, dopo l’oro nei pesi massimi ai Giochi di Montreal di Teofilo Stevenson – forse il più forte pugile cubano di sempre – e di Alberto Juantorena nell’atletica leggera (800 metri), Fidel era all’aeroporto di L’Avana a salutare e ringraziare i due eroi. Il calcio agli occhi del Comandante si è riabilitato solo negli ultimi anni.

E la conversione allo sport per eccellenza dominato dalla legge degli interessi, dei soldi, era dovuta al rapporto con Diego Armando Maradona. Fidel e Diego. Due icone. Discutibili, carismatiche, controverse, in grado di aprire un dibattito infinito tra pregi e difetti, virtù ed errori storici, nei rispettivi campi. Entrambi in lotta contro lo spauracchio, il Potere. Fidel contro gli Stati uniti, il blocco dell’Occidente – anche se coltivava rapporti eccellenti con l’Italia – mentre il numero 10 più forte di sempre non ha mai perso occasione per scagliarsi contro la Fifa.

L’argentino conosceva Castro quasi 30 anni fa, 1987, visita a L’Avana. Alcuni anni dopo era il Lider che lo tirava fuori dai guai, ospitandolo per il primo, drammatico, episodio di lotta alla dipendenza da droghe. In Argentina Diego era un reprobo, a Cuba il benvenuto. Nel gennaio 2015 una lettera scritta da Castro a Maradona, mostrata a una tv cubana, era la prova che l’anziano leader non fosse morto.

“E’ stato come un secondo padre, mi ha aperto le porte di Cuba quando in Argentina molte cliniche non mi volevano. Ho avuto con lui un rapporto unico, gli devo molto – ha detto El Pibe de Oro dopo la morte di Castro – gli ho parlato della mia malattia, mi ha consigliato moltissimo. E’ stato una leggenda, ho avuto con lui un rapporto di amicizia unico che credo non abbiano avuto altri. Ora andrò a Cuba a salutare un amico”.