Di questa estate brasiliana, più ancora dei mondiali di calcio, si ricorderà forse il definitivo superamento del sistema di Bretton Woods. Approfittando infatti della competizione calcistica, si sono dati appuntamento a Brasilia i leader dei paesi Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – ed capi di Stato dell’Unasur, l’organizzazione che rappresenta i paesi dell’America latina. All’ordine del giorno la discussione per la creazione di una Banca di sviluppo autonoma del quintetto Brics, che abbia i paesi sudamericani come principali interlocutori, e, più nell’immediato, di un Fondo di Riserva per affrontare problemi contingenti di restringimento del credito esterno, cioè ad opera delle Istituzioni nate a Bretton Woods nel 1944.

Il sistema di Bretton Woods, messo in piedi dalle grandi potenze occidentali sotto l’accorta regia del Tesoro statunitense, iniziò a mostrare la corda già nel corso degli anni Settanta del secolo scorso, con la decisione dell’Amministrazione Nixon di abbandonare la parità dollaro-oro per rispondere al doppio shock, petrolifero e della sconfitta Usa in Vietnam. È tuttavia nella vulgata occidentalista che tale sistema, finché ha retto, con la sua “convivenza di Keynes all’interno e di Smith all’esterno” (Gilpin), abbia garantito il Trentennio di maggior sviluppo della storia dell’umanità. Se le ricette alla base di questo successo sono state precipitosamente messe da parte negli ultimi trent’anni, non per questo le istituzioni macro-economiche globali pensate dall’Occidente per supportarle hanno smesso di operare. Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Club di Parigi hanno mantenuto tutta la loro forza cogente, cambiando semmai di segno. Da strumenti per equilibrare le economie, ed i rapporti di forza, all’interno di un area occidentale concepita come un tutt’uno compatto contro la minaccia sovietica, si sono trasformati in strumenti per disequilibrare le economie ed i rapporti di forza globali a favore del Nord del mondo, e contro il Sud del mondo.

Nel lungo periodo, dissoltesi le nebbie della cortina di ferro, è emerso come tratto distintivo di Bretton Woods, la pretesa globale di istituzioni pensate in Occidente e per l’Occidente. Formalmente, tutti gli Stati vi erano rappresentati; ma, nella pratica, ciò che era bene per il Nord era bene per l’intero pianeta.
Viste dall’ottica dei nuovi gruppi dirigenti progressisti dell’America Latina, le istituzioni di Bretton Woods rappresentano meno i Trenta gloriosi, e più la grande crisi della fine degli anni Novanta. Il caso argentino rimane in quest’ottica emblematico. Le cause dell’indebitamento del paese, esploso fragorosamente sul finire degli anni Novanta, allignano tutte nelle misure ultraliberiste imposte dagli organismi internazionali ai compiacenti governi della dittatura militare prima (1976-1983), e agli altrettanti compiacenti governi guidati da Carlos Menem ed i suoi epigoni poi.

Nel corso dell’ultima decade, il nuovo corso kirchnerista ha assicurato una fase di robusta crescita economica e di rafforzamento dell’apparato produttivo nazionale, e tuttavia il paese sudamericano si ritrova di nuovo sull’orlo del default , a causa di una sentenza dell’alta corte di Washington: quest’ultima ha imposto il pagamento dell’intero debito – contratto, appunto, in un’altra epoca politica ed economica – a quei fondi di investimento privati, con sede negli Stati uniti, che non avevano accettato quella rinegoziazione, valutata invece positivamente da tutti gli altri attori, statali o privati che fossero. Il valore esemplare della sentenza appare lampante: si è trattato di punire un modello di uscita dalla crisi basato su ricette eterodosse – innalzamento dei salari e delle pensioni, abbassamento dell’età pensionabile, forte ruolo dello Stato in economia con la ri-nazionalizzazione di settori decisivi, alta spesa pubblica (particolarmente beneficiate la ricerca scientifica, la scuola pubblica e la rete di trasporti ferroviari). E di far leva su un apparato mediatico compiacente per costruire l’eterna immagine del “latino inaffidabile”, sorvolando sullo sforzo compiuto dal gigante argentino e sulle misure effettivamente intraprese per radicarlo.

Nei summit che in questi giorni si svolgeranno tra Brasilia e Buenos Aires non è tuttavia in gioco solo l’allontanamento dell’incubo del default dai sonni degli argentini – in questa direzione va senz’altro il progetto di Fondo autonomo di compensazione. È in gioco anche la messa in crisi della pretesa egemonica globale dell’Occidente e dell’ideologia unica che ne sorregge e propaganda le magnifiche sorti e progressive. La Banca di sviluppo si potrebbe trasformare in uno strumento decisivo a servizio di ogni Stato (o comunità di Stati) che voglia trovare vie d’uscita alternative dalla crisi. Finora questo processo, che proprio in America Latina ha trovato il suo laboratorio, ha scontato proprio la mancanza di strumenti tecnici efficaci per supportarlo.
Il Sud del mondo, secondo una ricorrente metafora che impazza in queste ore nei nostri media mainstream incaricati di farne senso comune, sconfitto dal modello tedesco sul campo di calcio come sul panorama globale, potrebbe prendersi la più importante e decisiva delle rivincite, proiettando le proprie conseguenze ben oltre le tribune dello stadio Maracanà.