In Italia la campagna elettorale procede con le modalità e i ritmi di una fiera di paese, dove gli imbonitori tengono banco e le risse sono sguaiate per definizione. La messa in scena non scandalizza più che tanto: i destini del Paese si decidono altrove, a Bruxelles, dove si fa sul serio e in effetti il segnale lanciato due giorni fa è non solo serio ma decisamente preoccupante.

LUIS DE GUINDOS, ministro dell’Economia spagnolo, un passato speso tra Lehman Brothers, Opus Dei e la gestione del salvataggio delle banche spagnole nel 2012, rigorista convinto, sarà vice-presidente della Bce. Viene dal Sud, così la regola non scritta ma ferrea della divisione dei posti di comandi tra Paesi del nord e del sud sembrerà rispettata. Però lo sarà solo in apparenza perché De Guindos è «uno spagnolo di Germania», vicinissimo alle posizioni dei falchi tedeschi e nordeuropei e deve proprio a questa corrispondenza di rigoristi sensi la nomina, assicuratagli nonostante sia ministro di un governo in carica, proprio come Padoan, a cui però fu negata la presidenza dell’Eurogruppo nel novembre scorso proprio perché ministro. Ufficialmente la corsa è ancora aperta, ma dopo il ritiro del candidato irlandese Philip Lane la partita è chiusa.

SE IL NOME DEL FUTURO vicepresidente pesa e conta, ancora di più, forse, contano e pesano le modalità con cui si è arrivati alla nomina di fatto pur se ancora non di nome. E’ tornato in campo, più che mai robusto, l’asse franco-tedesco, e ha spazzato via il candidato di Mario Draghi, appunto l’irlandese Lane. A questo punto per il presidente della Bundesbank Jens Weidmann, anche lui un falco con tutti i crismi del caso, la strada verso la successione a Mario Draghi, nell’ottobre 2019, pare spianata.

LA SOLITA REGOLA della spartizione Nord-Sud impone un presidente della Bce nordico. Weidmann non è il solo in pista. Potrebbero ambire alla poltrona di comando anche l’olandese Knot e il finlandese Hansen. Ma di fronte al ritrovato vigore della tenaglia franco-tedesca, con la Spagna di supporto, le alternative non dovrebbero impensierire troppo il presidente della Bundesbank. In ogni caso, quanto a rigorismo, la differenza tra i papabili è praticamente irrilevante.

IL SOLO VERO OSTACOLO nella marcia di Weidmann sarebbe una scelta di Angela Merkel a favore della presidenza della Commissione europea, ipotesi piuttosto fantapolitica ma che pure un po’ circola. In quel caso potrebbe rientrare in gioco il governatore della Banca di Francia Villeroy de Galhau, che sarebbe in effetti il candidato favorito da Draghi e che almeno in materia di Quantitative Easing è certamente più favorevole di Weidmann a proseguire nella strada imboccata dall’attuale presidente. Lo stesso francese, però, è anche co-firmatario proprio con il collega tedesco della famosa lettera del 2016 a favore della creazione di un ministero del Tesoro europeo unico con annessa decurtazione secca dei già limitati poteri della banche centrali dei singoli Paesi. Per i traballanti conti italiani andrebbe probabilmente un po’ meglio che con il tedesco ma nemmeno troppo.

QUANTO A DRAGHI, la somma delle mosse dispiegate negli ultimi giorni non ne fa un presidente dimezzato ma certamente ne limita il peso e il potere. Del resto la progressiva uscita dal Quantitative Easing è già scritta, anche se la necessità di non apprezzare troppo l’euro nei confronti del dollaro potrebbe consigliare tempi ulteriormente rallentati. Ma di qui all’anno prossimo i nodi dei conti italiani arriveranno certamente al pettine, e il rischio di dover affrontare la tempesta nella situazione peggiore, cioè con un Parlamento incapace di esprimere una maggioranza o con una maggioranza fragilissima, il che sarebbe forse persino peggio, è notoriamente concreto.

Se alla concentrazioni di fattori preoccupanti si aggiunge una disposizione nei confronti dell’Italia di Weidmann tutt’altro che benevola si può capire perché oggi quel che succede tra Bruxelles e Francoforte sia inquietante quanto il prossimo responso delle urne il 4 marzo. Se la situazione diventasse davvero drammatica la possibilità di un Draghi catapultato dalla presidenza della Bce a palazzo Chigi diventerebbe più che mai concreta.