Nel luglio 1969 la stazione radio KRLA di Pasadena, California, iniziò a trasmettere sempre più spesso pezzi inediti di Bob Dylan, lontano dai plachi ormai da tre anni. Nonostante la registrazione fosse di pessimo livello tutte le radio californiane ripresero quelle canzoni, tratte da un 33 giri doppio, senza titolo né nome dell’artista sulla copertina completamente bianca. Ribattezzato Great White Wonder, quel disco, con pezzi ripresi soprattutto dai nastri registrati nella camera d’albergo dell’amica Bonnie Beecher nel 1961 e sei anni dopo con la Band in quelli che sarebbero poi diventati i Basement Tapes, diventò presto una leggenda. Oggi è ricordato come il primo bootleg nella storia del rock. Aprì la strada a una vera e propria alluvione di dischi pirata.

NELLA STRAGRANDE maggioranza dei casi i bootleg, preziosi per gli studiosi, adorati dai die hard fans, aggiungono poco all’opera già nota. La principale eccezione è proprio l’apripista Bob Dylan, non a caso l’autore con il maggior numero di bootleg accreditati e il primo a renderli «ufficiali» con la sua lunghissima Bootleg Series. Iniziata due decenni fa, nel 1991, arriva oggi al volume 16, Springtime in New York: 5 cd nella versione deluxe, 2 in quella normale, che raccolgono inediti registrati tra il 1980 e il 1985. La differenza tra Dylan e praticamente tutti gli altri musicisti piratati dai bootleggers non sta solo nell’enorme numero di inediti rimasti per anni nel cassetto ma anche in alcune pessime abitudini del principale autore di canzoni e testi d’America. La prima è quella di registrare ma poi decidere all’ultimo momento di non pubblicare alcune delle sue creazioni migliori.

La seconda è quella di scegliere spesso, tra le diverse versioni registrate, la peggiore. In parte le scelte assurde del cantautore si spiegano con i tempi lunghi della Columbia. Facendo passare mesi tra la presentazione dei pezzi e la loro pubblicazione ha spesso indotto rimaneggiamenti peggiorativi sul piano musicale, anche se spesso invece migliorativi su quello dei testi. Più essenziale è probabilmente una resistenza dell’autore nel mettersi a nudo e svelare completamente le proprie emozioni. Quasi sempre le seconde versioni sono meno ispirate e sincere di quelle che Dylan sceglie di sacrificare.

LA TENDENZA di Dylan a nascondere una parte essenziale, spesso quella migliore, della sua produzione, non è mai stata tanto esasperata quanto nella lunga fase della sua seconda e non ultima resurrezione, gli anni sfolgoranti tra il 1974 e il 1983, ma ancor più nell’ultimo scorcio di quella fase, quello i cui segreti vengono svelati nel boxset disponibile da stamattina in tutto il mondo.
Il capitolo centrale, con i cd 3 e 4, riguarda Infidels, il vero capolavoro perduto, un cd che avrebbe potuto e dovuto figurare come essenziale nel canone dylaniano, ala pari di Blonde on Blonde o Blood on the Tracks, e che fu invece offerto al pubblico in una versione infinitamente più povera di quel che avrebbe potuto essere.

Tra aprile e maggio 1983 Dylan aveva messo insieme una band insieme improbabile e strepitosa: un grande chitarrista blues come Mick Taylor, ex Rolling Stone, Mark Knopfler e Alan Clark dei Dire Straits, il duo giamaicano reggae Sly and Robbie, considerato allora la miglior sezione ritmica del mondo. Alla fine si ritrovò con materiale sufficiente per riempire un cd doppio e con alcuni pezzi tra i suoi migliori di sempre in assoluto. Come il capolavoro Blind Willie McTell, registrato in versione sia acustica che elettrica ed è difficile decidere quale delle due sia la migliore. Al momento della cernita, però, Dylan non solo eliminò dal disco molti dei pezzi più significativi e belli ma anche tra quelli che trovarono posto nel disco scelse puntualmente le versioni peggiori, come nel caso della celebre Jockerman.

Alcune delle canzoni non pubblicate furono poi fatte uscire nella prima uscita delle Bootleg Series. Molte, inclusa la Blind Willie elettrica, arrivano al grande pubblico solo ora, dopo 38 anni.

NEGLI ALTRI tre cd figurano, oltre a una serie di canzoni e cover eseguite dal vivo, gli outtakes di Shot of Love, con pezzi inediti o eseguiti in versioni molto diverse, e di Empire Burlesque. In quest’ultimo caso, però, la responsabilità del calo di livello del disco rispetto alle registrazioni originali non è del musicista. Fu la Columbia a imporre al produttore Arthur Baker di rimaneggiare i pezzi per renderli omogenei al sound che spopolava a metà anni ’80. Il primo ad ammettere che era stata una pessima idea fu lo stesso Baker.

Ci sono pochissimi artisti, in ogni campo, dei quali si possa dire che la parte nascosta dell’opera è tanto importante ed essenziale quanto quella nota, forse anche di più. Springtime in New York dimostra che tra quei rari casi il principale è Dylan.