Nella galassia teorica chiamata «scienze cognitive», Daniel Dennett è un outsider: contro la tendenza a privilegiare processi mentali e algoritmi di calcolo, ha difeso l’idea che l’autocoscienza umana sia prodotta dalle parole. Nel suo ultimo saggio, Dai batteri a Bach Come evolve la mente (traduzione di Simonetta Frediani, Cortina, 568, euro 32,00) propone il compendio aggiornato di una produzione trentennale sulla base di due ipotesi principali: spendendosi in un’appassionata apologia della prospettiva darwiniana contro chi denigra la selezione naturale in nome di un progetto divino, Dennett insiste sul concetto di «competenza senza comprensione». Per la complessità architettonica del termitaio o la diffusione endemica del morbillo non è necessario postulare una mente cosmica che pianifichi travi portanti e strategie di contagio. L’evoluzione naturale procede dal basso per mezzo di variazioni casuali che, nel corso delle generazioni, producono corpi adatti all’ambiente.

Tra natura e tecnica
L’originalità della proposta di Dennett risiede nell’estensione di questo principio alla vita umana: siamo in grado di usare la maggior parte degli oggetti che ci circondano pur non avendo la minima idea di come funzionino. Il prodigio della tecnica, adoperare smartphone e scaldabagni senza essere ingegneri o idraulici, si fonda sui prodigi della selezione naturale: in entrambi i casi si verificano comportamenti che per essere adattivi non necessitano della comprensione di principi generali. È un esempio di competenza senza comprensione, questo, che ricalcherebbe le strategie biologiche di propagazione dei batteri, la principale e più originaria delle forme di vita. Per gli umani, il filosofo americano ipotizza, infatti, una dinamica microbiotica. All’inizio, il linguaggio avrebbe infettato il nostro cervello. Successivamente, per la specie ospite i parassiti sarebbero divenuti dei simbionti. Come l’intestino funziona grazie alla flora che lo colonizza, così la mente dei sapiens è propriamente umana grazie a batteri culturali chiamati «parole», che fanno capo al concetto di «meme», coniato nel 1976 dal biologo Richard Dawkins.

Dennett allestisce il suo ambizioso progetto ricostruttivo con una prosa brillante e una mole impressionante di ramificazioni teoriche, esempi, aneddoti. Ma alcune ambiguità restano irrisolte. La prima è generata da un’equazione sotterranea e potente: di fatto, il saggio identifica competenza senza comprensione e selezione naturale. Questa scelta consente di ipotizzare una matrice evoluzionista per l’uso di qualsiasi utensile: la zanzara non sa come riesce a succhiare il sangue, io prendo l’ascensore anche se non so progettarlo.

Allo stesso tempo, però, Dennett fa della natura una forma della tecnica. Secondo il filosofo americano, infatti, sarebbe possibile ricostruire i fenomeni evolutivi secondo un metodo, l’«ingegneria inversa», che individua a ritroso le ragioni seguite dalla vita nel diffondersi sul pianeta. Ma l’affinità tra tecnica culturale e selezione naturale diventa talmente stretta da produrre una nebbia concettuale quasi impenetrabile. Ad esempio, Dennett sembra non vedere che ogni azione umana acquista significato solo dopo esser stata compiuta. Poiché radicalmente pubblica, l’azione individua il suo senso a posteriori: solo a cose fatte l’assalto alla Bastiglia può dirsi rivoluzionario o la vendita della propria abitazione un affare.
Le prassi umane sono, dunque, forme di competenza senza comprensione ma non per questo darwiniane. Ai parlanti lo swahili non offre più fitness evolutiva del francese, il giuramento non è più ecologico dell’ordalia.

Non è un caso che la seconda ambiguità intrinseca al ragionamento di Dennett riguardi il linguaggio. Il «meme» è una formula suggestiva, non c’è dubbio, ma nasce il sospetto che gran parte del suo fascino sia dovuto all’opacità di un passepartout. Come il Dna, spiega Dennett, il meme cambierebbe per un errore di copiatura. Il problema è che le lingue raramente mutano in questo modo. Ad esempio, gli usi innovativi di ordine metaforico («sei un cane!») o metonimico («amo le due ruote») non nascono da un’errata imitazione dell’impiego letterale. Spesso le parole hanno origine da processi analogici inconsapevoli (nessuno li stabilisce a tavolino) che, però, non sono riconducibili a incidenti d’ascolto.

Come un Robinson Crusoe
«Doppiare» è l’analogo italiano dell’inglese «to dub», cioè il frutto non casuale di una precisa trasformazione morfologica. Il neologismo coniato da Dawkins non è la storpiatura di «gene» dovuta a una trascrizione fonetica imperfetta, bensì l’esito storico di una costruzione proporzionale: «meme» sta al greco «mimema» (imitazione) come «gene» sta al greco «genesis» (generazione).

Infine, la ricerca di Dennett sembra contaminata da un lessico ultraevoluzionista mutuato, paradossalmente, dal mondo neoliberale. Divenendo ciechi i pesci cavernicoli «riducono i costi»; per i neuroni esisterebbe «un direttore del personale»; l’architettura cerebrale somiglierebbe «al libero mercato». Il risultato è un ritratto della natura umana e del mutamento biologico fin troppo somiglianti a una versione aggiornata di Robinson Crusoe: ad affermarsi nell’ambiente sarebbero gli individui isolati che riescono a sfruttare, è una delle espressioni più ricorrenti del libro, «processi di ricerca e sviluppo».