Buona fortuna a chi tenta di ricostruire la vicenda del manifesto in un racconto unitario, buona fortuna al Manifesto di oggi, cinquantenne: la sottoscritta si limita a sfogliare il grande volume rosso che contiene la prima annata, quella del 1971, in compagnia della raccolta della Rivista-madre, provando a meditare.

Il fatto è che l’insieme – non solo i contenuti ma anche la grafica, e il modo di produzione, e tutto un ricordare affastellato, personale-politico – merita ben altro che un bozzetto. Meriterebbe studio, ricerca di qualche verità, scrittura sorvegliata, insomma, niente di giornalistico. A meno che…

A meno che non si decida di soffermarsi sui tratti distintivi delle origini. Come la bellezza grafica, già controcorrente. O una sorta di unità letteraria, prodotta da un atteggiamento fermamente antipropagandistico. O la continuità e la differenza, insieme, tra la rivista e il quotidiano. O le motivazioni per le quali si voleva partecipare alla proposta dell’una e dell’altro.

Chi scrive dichiara a scanso di equivoci di non essere in grado di parlare separatamente dell’impresa politica e del suo prodotto comunicativo e cartaceo, nonostante la rottura intervenuta tra il partito che ne nacque e il giornale, e nonostante il dato biografico dell’essere diventata giornalista solo dopo quella rottura.

Lo sguardo rivolto al grande volume rilegato in rosso è quello di una riscoperta politica e dunque culturale. Di un comunismo insieme originario e inedito. E di un’informazione selettiva, quasi beffardamente, nelle quattro lievi paginette che iniziarono a volare come un ufo nel panorama pigro della stampa nazionale.

Tanta fabbrica, tanto mondo, tutto ciò che racconta il capitalismo e le sue cattiverie infinite e il virus fascista che si annida nel suo corpo, tutto ciò che si oppone, e la ferocia delle istituzioni totali, e il fermento culturale, e sì, anche le prime note del nuovo femminismo.

Il tutto senza separatezze, senza gerarchie, unificato come da un nastro nei «sommarioni» che interpretavano ogni giornata in chiave politica: profonda e ampia, critica e propositiva. Ma niente santini: qualche volta si inciampava di brutto.

Perché la giornata non era la giornata del governo e dei suoi dintorni se non nella loro (eventuale) connessione con la giornata personale-politica militante. Era il manifesto-strumento, il manifesto-agenda, il manifesto ispiratore. Che prendeva la parola sulla realtà tutta per farne un disegno comprensibile e una mappa per agire.

Con l’ambizione di darla, quella parola, a chi ne ha troppo poca o a chi non se la prende mai.

Per esempio le donne.

Come è noto, il gruppo originario del manifesto era pieno di donne assolutamente autorevoli – impossibile dimenticare il ruolo primario di Rossana Rossanda, la sedicente non-femminista che ha fatto i conti col femminismo come nessuna e nessuno. Ma la militanza politica ti metteva a contatto col silenzio carico di passioni di tante donne militanti.

Una donna non può dimenticare la fatica e la caparbietà necessarie a prendere la parola pubblica e politica in contesti nei quali gli uomini parlavano sempre e comunque e a lungo. Una fatica che si incontra ancora, che ancora esige solidarietà e affetto e attività di caparbia promozione, senza tregua!

Così come una donna spesso sa di avere nel cassetto un giornale segreto, una scrittura dove deposita quello che non dice. Quanti di quei diari hanno istruito segretamente le giornaliste del manifesto? La passione politica era anche questo prendere la parola, finalmente: riprendere voce e scrittura. E il manifesto è stato anche l’intento di offrire la parola a diseredate e diseredati del linguaggio politico, aiutandoli ad essere soggetti parlanti: in coro o di persona.

A volte qualcuno su quelle pagine nella fretta scriveva difficile, e io ricordo la telefonata serale di un compagno che, finito il lavoro all’Innocenti, mi chiedeva con naturalezza spiegazioni su un articolo contorto e astruso che però gli pareva importante. Faceva parte della generazione che intendeva frequentare le 150 ore di istruzione e nei confronti della cultura non aveva né soggezione né collera: se la prendeva e basta.

Così il manifesto può essere visto anche come un generoso (amorevole persino ai miei occhi) dispensatore di parola politica e pubblica. O di composizione. O di disegno.

Perché alle origini lo sforzo di quelle quattro lievi paginette era anche quello di creare e ricreare e limare e mutare un disegno (detto «complessivo») di mondo e di politica come mondo, come paesaggio unitario per le vite singole.

Più avanti negli anni in quello sforzo, nelle pagine che si moltiplicarono, si intravede forse il segno di una solitudine che avanzava; ciascuna e ciascuno di noi alle prese con un oggetto specifico, gli Esteri, la Cultura, insomma, i Settori, o le Sezioni. Ciascuna e ciascuna alle prese con una sorta di pietra da scolpire.

Certo, soccorrevano le riunioni di redazione, ma non sempre bastavano, non sempre erano efficaci, a volte parevano una raccolta di fragilità.

Viene in mente la linea d’ombra… ma qui è bene fermarsi e offrire a ragazzi e ragazze d’oggi, «con le guance di pesca», il capo di un filo di Arianna: che esplorino questa storia e questa antica scuola per conto loro, se lo vogliono.

Penso che noi una vera Storia del Manifesto ancora non la sappiamo scrivere. Non io comunque.