Con la solerzia che lo contraddistingue ogni volta che c’è da dire qualcosa di male contro gli approcci evoluzionistici allo studio delle capacità umane, Massimo Piattelli Palmarini ha colto l’ennesima occasione sulle pagine del Corriere della Sera (martedì 13 maggio 2014), indicando alla comunità scientifica le battaglie giuste da compiere e quelle su cui non vale la pena perdere tempo: il tema dell’origine del linguaggio, manco a dirlo, è da rubricare senza dubbio tra le questioni su cui è del tutto inutile affaccendarsi. Purtroppo, Palmarini non è solo in questa impresa: alla base della sua reprimenda contro gli approcci evoluzionistici è The mystery of language evolution un articolo appena apparso su «Frontiers in Psychology» (maggio 2014) in cui, capitanati da Chomsky, un gruppo di autorevoli studiosi – tra cui Ian Tattersall e Richard Lewontin – considerano l’origine del linguaggio un mistero insolubile su cui non vale la pena impegnare le proprie energie.

Secondo Piattelli Palmarini è soltanto un caso che l’articolo apparso su «Frontiers» esca a ridosso della conclusione della X edizione (tenutasi a Vienna) della «Evolang conference», il convegno che ogni due anni chiama a raccolta i più importanti esperti mondiali sul linguaggio. Tutt’altro che casuale, però, è l’insistenza con cui negli ultimi tempi Chomsky e i suoi colleghi hanno preso a criticare il tema dell’origine del linguaggio. Alla base della controversia è il rapporto tra linguaggio e selezione naturale. La tesi di Chomsky, come è noto, è che il linguaggio non sia interpretabile nei termini delle variazioni lente e progressive poste da Darwin a fondamento del processo evolutivo. Detto questo, la discussione sull’origine del linguaggio chiama in causa anche (soprattutto) il problema del modello di linguaggio cui fare riferimento. La discussione più accesa, in effetti, non è se il linguaggio sia compatibile con la teoria dell’evoluzione ma se uno specifico modello del linguaggio sia compatibile con la selezione naturale. Di quale modello si tratta?

Chomsky ha avuto il merito indiscutibile di pensare alle capacità verbali in riferimento all’attività della mente-cervello degli individui: «biolinguistica» è il termine che egli utilizza a proposito della Grammatica Universale, il modello prevalente nella scienza cognitiva. L’idea che il linguaggio sia un componente innato della mente umana è a fondamento della «svolta cognitiva» impressa dallo studioso americano alla riflessione sul linguaggio a partire dalla seconda metà del Novecento: un punto di non ritorno negli studi contemporanei sulle abilità comunicative umane.

Alla base della tesi di Chomsky c’è l’idea che il tratto di unicità che caratterizza le capacità verbali umane possa garantire uno statuto di specialità agli individui che le possiedono. Dire che il linguaggio è il fondamento della «differenza qualitativa» tra gli esseri umani e tutti gli altri animali è il tributo che Chomsky paga a Cartesio. L’adesione al cartesianesimo ha ripercussioni immediate sul modo di concepire le nostre capacità verbali: il riferimento alla Grammatica Universale chiama in causa una concezione astratta del linguaggio governata dalla priorità assegnata alla sintassi (alla ricorsività, in primo luogo). Guardare al linguaggio nei termini dei principi astratti che governano la combinatoria tra simboli è un modo per distinguere la competenza che i parlanti hanno delle regole del linguaggio dall’uso effettivo che gli esseri umani fanno del linguaggio nei reali contesti comunicativi.

Confondere il linguaggio con la comunicazione è per Chomsky un errore imperdonabile: studiare l’origine del linguaggio a partire dall’idea che le capacità verbali umane siano un adattamento ai fini della comunicazione è la conseguenza diretta di tale errore. Poiché non è uno strumento della comunicazione, il linguaggio è un’entità del tutto nuova non spiegabile in riferimento a capacità più semplici che l’hanno preceduta nel tempo: ogni tentativo di cercare i precursori del linguaggio (sia in altri animali sia in altri ominidi) è votato al fallimento.

L’argomento principe utilizzato nell’articolo apparso su «Frontiers» per distinguere in maniera netta le capacità verbali umane dalla comunicazione animale riguarda i tentativi di insegnare il linguaggio alle grandi scimmie. L’idea che questi studi rappresentino un vicolo cieco è esemplificata, secondo gli estensori dell’articolo, dal caso di Nim Chimsky lo scimpanzé utilizzato da Terrace (negli anni Settanta del Novecento) per verificare se la capacità di costruire sequenze ordinate di parole in frasi complesse sia una prerogativa degli umani. Per quanto Terrace (allievo di Skinner) fosse animato dalla convinzione che Nim potesse riuscire nel compito, il risultato del progetto si rivelò un fallimento: come scrive nel libro (Nim, Knopf, 1979) i risultati di anni di ricerca si mostrarono un caso clamoroso a favore della proposta di Chomsky e dei cartesiani. Fine della storia? Niente affatto.

È davvero singolare, in effetti, che l’unica prova utilizzata nell’articolo apparso su «Frontiers» relativa all’apprendimento del linguaggio da parte delle scimmie sia affidata al resoconto di un progetto sperimentale di cui sono noti i limiti in primo luogo metodologici. Come ha sottolineato Roger Fouts in La scuola delle scimmie (Mondadori, 1999), il metodo di addestramento di Nim, rigidamente improntato a criteri comportamentistici, non è di certo il modo migliore per raggiungere l’obiettivo prefissato: perché mai una scimmia dovrebbe apprendere il linguaggio attraverso premi e punizioni visto che neppure gli umani lo apprendono così? A prescindere dalla metodologia, gli studi di Terrace sono ormai vecchi di quarant’anni e la ricerca sull’apprendimento del linguaggio nelle grandi scimmie, con buona pace dei neocartesiani, è andata molto avanti da allora.

Il fatto che nell’articolo apparso su «Frontiers» si faccia riferimento soltanto a Nim è fortemente sospetto: come è possibile ignorare, solo per citare un altro caso noto, gli studi di Savage-Rumbaugh con Kanzi? Le capacità mostrate da questa scimmia (un bonobo) nella comprensione di enunciati sintatticamente complessi è davvero stupefacente per chiunque guardi alla questione libero da pregiudizi concettuali. Persino Tomasello, un autore poco incline a tracciare linee di continuità tra il linguaggio umano e la comunicazione animale, ha sostenuto che l’incontro con Kanzi lo ha portato a rivedere in modo radicale la propria posizione sulla possibilità di insegnare il linguaggio umano ad altri animali.

Cosa trarre da queste considerazioni? Non certo la conclusione che le grandi scimmie siano in grado di elaborare frasi allo stesso modo in cui le elaborano gli umani. Perché mai, d’altra parte, una scimmia dovrebbe parlare come un umano? È di nuovo il punto di vista cartesiano a confondere le acque: per Chomsky considerare le proprietà essenziali del linguaggio in termini di tutto-o-nulla è un modo per giustificare la differenza qualitativa tra noi e gli altri animali: dal suo punto di vista, in effetti, o si parla come gli umani o non si parla affatto. Contro una concezione di questo tipo, il caso di Kanzi mostra che la sintassi è una questione di grado e non di qualità. Detto questo, i neocartesiani non sono disposti a fare un solo passo indietro rispetto alla loro posizione. Se c’è una cosa che davvero li manda su tutte le furie è l’idea di considerare il linguaggio in termini gradualistici, un orrore per chiunque abbia in mente la specialità degli umani nella natura. A dar man forte alla tesi della differenza qualitativa contribuisce il sodalizio con la paleoantropologia di Tattersall, espressa nel Cammino dell’uomo (Garzanti, 2004).

Da qualche anno Chomsky ha preso a proprio riferimento il «modello dell’esplosione» proposto dallo studioso americano. L’interesse di Chomsky per Tattersal, in effetti, è legato all’idea che il pensiero simbolico appaia in Homo sapiens in modo improvviso e inaspettato. Per Tattersall, come è noto, c’è una netta separazione tra l’avvento dei sapiens come nuova specie biologica (circa 200.000 anni fa) e l’avvento, caratterizzante i sapiens moderni, del pensiero simbolico (circa 50.000 anni fa). Poiché per Tattersall il modello dell’esplosione è un modo per giustificare una prospettiva culturalista del linguaggio (non una prospettiva biologica) l’unico aspetto che tiene in piedi il sodalizio con Chomsky è l’idea che il linguaggio sia un fatto inedito in natura. Secondo Tattersall, in effetti, i sapiens moderni non hanno precursori né in altri animali, né soprattutto in altri ominidi: l’avvento del pensiero simbolico garantisce loro uno statuto di specialità nella natura. Splendido, si potrebbe sostenere, che c’è di male a essere speciali?

Ovviamente, è del tutto legittimo pensare che gli esseri umani siano organismi caratterizzati da proprietà incommensurabili rispetto alle proprietà degli organismi che li hanno preceduti nel tempo. Ciò che non è legittimo fare è considerare un’ipotesi di questo tipo in linea con una prospettiva di naturalizzazione. Dar conto di capacità complesse come il linguaggio chiamando in causa un fatto improvviso e inaspettato è, a essere buoni, soltanto una pseudospiegazione: per un naturalista che si rispetti, come sottolinea Michael C. Corballis in The recursive mind (Princeton University Press, 2011), spiegare l’origine del linguaggio in riferimento al modello dell’esplosione equivale ad affidarsi a un miracolo. Di certo si può credere ai miracoli e anche, in maniera più prosaica, ai colpi di fortuna: quello che non si può fare e credere che attraverso miracoli e colpi di fortuna si possa spiegare naturalisticamente un certo fenomeno.

Una prospettiva naturalizzata del linguaggio è un approccio teorico che considera le capacità verbali umane abilità di una specie animale tra le altre. Un approccio di questo tipo è un tributo all’idea di Darwin (1871, L’origine dell’uomo) secondo cui la differenza tra l’animale più intelligente e l’essere umano più stolto è sempre di grado e mai di qualità. Diversamente da quanto sostiene Chomsky, in effetti, un atteggiamento naturalistico allo studio del linguaggio è un approccio che rifiuta ogni riferimento a un supposto stato di eccezione degli umani nella natura. Si può essere cartesiani sin che si vuole: ma non si può essere cartesiani e naturalisti allo stesso tempo.

Piattelli Palmarini racconta di «essersi assunto il non lieve carico» (dopo che Chomsky aveva declinato l’invito) di tenere il discorso inaugurale della IX edizione della «Evolang conference» che si tenne a Kyoto nel marzo 2012 per spiegare agli studiosi presenti che i loro sforzi e il loro impegno avrebbero meritato un argomento più confacente di riflessione. Per tali studiosi fu «come se non avesse parlato affatto» visto che «per lunghe quattro giornate» continuarono a «sciorinare le ipotesi» che egli aveva tentato di confutare in apertura del congresso. L’indifferenza degli astanti, piuttosto che meravigliarlo, avrebbe dovuto indurre Piattelli Palmarini a un diverso tipo di riflessione. Il rischio di considerare le battaglie di retroguardia come la punta avanzata della ricerca è di trovarsi nella spiacevole situazione di quell’incauto automobilista che, dopo aver imboccato l’autostrada contromano, avanza imperterrito per la propria strada, fermamente convinto che siano tutti gli altri ad aver sbagliato direzione.