Di libro in libro, Attanasio è sempre più attenta alla concretezza, alla natura fisica della sua lingua: le labbra sono fin dalla prima pagina pastose e, da subito, la scia delle stelle è detta «farinosa». Abbandonata (ma non del tutto, se basta il sibilo di un «soffio d’erba») la mobilità magniloquente e inquieta del mare, l’isola dove esistere è avere amato, si sta davanti alla natura come una pianta infitta nella terra. L’intenzione di restituire il reale con onestà profonda è altrettanto onestamente chiara.
La scrittura di Daniela Attanasio, anche nel suo libro Di questo mondo (Aragno editore) vuole essere piana, ragionevole e argomentativa, mentre parla di cose indimostrabili. Meglio: di una realtà che viene riportata al mondo dalle parole, nel momento in cui vengono scritte, perché «il nulla è un accumulo di invenzioni». Invenzioni che colmino l’assenza. Ma è l’assenza a essere illusoria, poiché questa scrittura è piena di crepe, dalle quali emerge il fuoco che cova sotto la buccia delle apparenze, il fuoco che – secondo Agamben – chi scrive cerca sempre. Platonicamente: «l’uomo non desidererebbe con tanta forza una tale verità se non l’avesse mai vista, se non fosse certo che esiste (…): si desidera soltanto ciò che non si ha più, che si è perso». Scrive infatti Attanasio: «la realtà non vista, quella del desiderio, della / fantasia», che è addirittura «qualcosa che aiuta (…) a sanare la parte malata / del corpo». Potere taumaturgico della parola. Perché la filosofia e la letteratura hanno a che fare con il fuoco perduto, con il racconto di un fuoco che non sappiamo più accendere, ma del quale conserviamo memoria.
Nel caso di Attanasio, sembra che il mondo si accenda di bagliori improvvisi, mentre l’autrice gira con pudore la faccia dall’altra parte, forse per voler essere ogni volta sorpresa, e la sua casa viene popolata dai morti: «fuochi spenti», muti e cortesi, che, come i morti di Fernando Bandini, fanno finta di non esserci per non farci paura. Ecco che la terra e il suo ozioso tempo storico si crepa e corrisponde a una terra sognata – a una terra perduta.
La poesia è la lingua del fuoco. Tanto più appare chiaro quanto più è evidente che l’autore, come Attanasio, per afferrare il mistero, lasci l’opera sporca, non perfettamente compiuta, prenda le distanze dallo stile (ancora Agamben: «in ogni vero scrittore, in ogni artista vi è sempre una maniera che prende le distanze dallo stile»), tenti anzi di stendere sulla pagina l’orizzontalità tanto spesso evocata: «il panno del silenzio» – un sudario sui corpi dei morti, che altrove è «un’aria muta poggiata sulle cose, un silenzio necessario» – e «tavole di nuvole», «garze di luce invernale», «sfoglia di nebbia senza cicatrici stirata a terra come una grande tovaglia»: tutte metafore che fondano una terra sulla quale sedersi aspettando la falla della sua evidenza, dalla quale non fuggire, non spiccare, se non di rado, «come una formazione di storni che colmando / il crepuscolo di nero scarta verso il sole».
Queste rare verticalità hanno bisogno di una meta, di una meta di fuoco come il sole, fin che la vita si schiude in una sua inaccessibile immagine: finale, unica e piena di mistero e, dalle pagine di questo mondo e dalla superficie di questo mondo, viene emanata la gratitudine costante di essere viva, quando, staccata la spina dell’egoismo e del pensiero che ci fa arrovellare inutilmente su un vuoto che non è delle cose, semplicemente si guarda: «le cose che vivono sotto i miei occhi».
È così: al mondo ci sono riverberi di un luogo perfetto. Uno di essi, il più potente, è l’amore: tu sei la mia memoria della semplicità e della bellezza, porta di accesso al mondo originario. Tu mi riporti a casa. Sotto lo sguardo vivo e caldo e vero del tuo amore non più sognato, visto, qui davanti ai miei occhi di membrane e di lacrime asciutte, un io fossile si è risvegliato, ha osato ancora chiedere, ha desiderato essere parte delle tue ossa, casa di pietra e cielo fra le tue braccia. Ecco di che ti parlo quando ti parlo d’amore. Prima, ben prima delle dodici stanze del poemetto d’amore mutato in livida pace.
Un’altra porta per il paradiso è la natura, nella sua fertile e feconda, rigogliosa evidenza, l’altra natura dentro la natura, la sua ombra evocante, sensitiva e vibratile. Qui comincia la bellissima serie di poesie scritte da un vecchio casale di campagna, dove Attanasio sembra ricordare e ricordarci quando eravamo alberi, animali, case di pura pietra e tutto era connesso e noi non eravamo separati, individui, eravamo connessi e compresenti. Tutto nel tutto, senza confini, senza io, senza psicologia, senza biografia, senza storia, perché senza tempo. Semplici, elementari, perfetti. Inesistenti. Che altro dice, altrimenti, quando scrive «ho l’illusione di essere una pianta buona per fare frutti» o quando accoglie nella pelle «la corrispondenza della polvere con la morte» o prende su di sé l’attimo nel quale chi lavora la terra sale le scale della casa, gira l’ultimo sguardo sul lavoro finito, su un altro giorno finito, prima di accendere la luce di una casa nella quale entra solo. Eppure.
Nel poeta non c’è solitudine, ma la fiducia in un’opera comune umana, che si dipana e viene scritta «da libro a libro», questo stare continuo in una coscienza collettiva, stare nel coro di una moltitudine che entra e esce da quella zona primitiva perduta, sempre sfiorata, mai posseduta e per ciò stesso: chiamante. E che è nostro dovere testimoniare.