Il sindaco di Lyon Paul Théraneau non riesce a pensare. Non più ha idee proprio lui con alle spalle anni di intuizioni che gli hanno permesso di costruirsi un’immagine politica vincente dentro al partito socialista e alla guida della sua città. Di sé dice: «Sono una macchina da corsa con un motore potente ma senza benzina».

IN UN IMPETO di sincerità è pure costretto a ammettere che la crisi non è dell’ultima ora, questo vuoto di pensiero dura da almeno vent’anni – forse è che non riesce più a sostenerlo? Per questo chiama Alice Heimann, una giovane precaria che lavora negli uffici comunali, trentenne con diverse esperienze, studi di lettere, filosofia, insegnamento all’estero che – come confida all’amica – le hanno fatto perdere di vista ciò che vuole per sé. Una condizione di incertezza comune a tanti della sua generazione passati tra stage, masters, studi continui nei quali, appunto, si finisce per smarrirsi.

Potrà mai lei con le sue incertezza rigenerare le idee del sindaco che inoltre – come si dice con insistenza nel suo staff – punta all’Eliseo per le prossime elezioni? La storia procede tra momenti personali e pubblici dei due protagonisti, e i loro incontri, lunghe chiacchierate a orari improbabili, la simpatia di un rapporto quasi «filiale», il confronto tra diversi vissuti – da una parte l’uomo politico con esperienza, dall’altra la studiosa che si sente un po’ aliena nella dimensione da cui viene risucchiata. Eppure riesce a interrogare il suo operato, l’agire all’interno dell’amministrazione, e più in generale della politica, a cominciare dalla distanza che le giornate convulse dell’uomo, organizzate da assistenti e planning hanno creato con quando gli accade intorno. Il sindaco rivendica la sua idea di progresso, ma Alice lo incalza: cosa può fare un politico odierno e cosa no di fronte la percezione comune di una «impotenza infinita», al fatto che quel «progresso» non ha più una dimensione univoca ma assume significati diversi secondo chi lo rivendica?

NON È DIFFICILE vedere nel film di Nicolas Pariser – presentato alla Quinzaine dello scorso Festival di Cannes – una riflessione su quanto accade nella politica oggi all’epoca dei populismi e dello scollamento tra i partiti «storici» e i cittadini, a cominciare dal partito socialista che in Francia si è sgretolato. Ma è una crisi che colpisce il senso stesso di sinistra, e nelle note che la ragazza scrive per il politico sottolineando l’esigenza di una diversa «modestia» – con la rivendicazione di letture come Orwell strumentalizzate a destra – appare con evidenza: cosa significa una politica di sinistra?

Quali energie, posizioni, scelte di strategia, intenti, battaglie che nel confronto col presente hanno perduto un’identità collettiva? L’apatia del sindaco, figura comunque illuminata, riflette questa mancanza di parola comune, ed è proprio qui, nella parola che Alice e il sindaco fonda il suo centro, dichiarando la sua ispirazione rohmeriana – Pariser è stato allievo di Rohmer – resa ancora più evidente dalla presenza di Fabrice Luchini nel ruolo del sindaco – con lui c’è Anaïs Demoustier in un personaggio poco classificabile secondo l’iconografia generazionale.

È un film politico quello di Pariser e non un film sull’esercizio del potere, piuttosto sulla parola della politica che si è perduta, sulla disillusione e sui desideri che per il sindaco si riaccenderanno, almeno un istante, nel discorso scritto insieme a Alice in cui critica i figli della Repubblica e i giganti delle economie. Potrà mai essere vincente nell’era del neoliberismo reso norma anche da chi dovrebbe attaccarlo?
È dunque questa parola che deve essere ripensata, riempita di nuova resistenza, di lotta. Il film non avrà un happy end, né risposte sulla crisi della democrazia, Pariser lascia lo spettatore con le sue domande puntando l’obiettivo sul regalo che Alice porta al sindaco, anni dopo, Herman Melville e il suo Bartlebly che preferiva dire di no.