«Più di una volta sono andato io stesso, insieme a mio fratello e altri medici a casa di un paziente che non era disposto a assumere una medicina oppure a lasciarsi operare o cauterizzare dal medico; e mentre il medico non riusciva a convincerlo, io ci riuscii, con nessun altro mezzo se non la tecnica retorica. E affermo: se arrivassero in una qualunque città un uomo, padrone della tecnica retorica, e un medico, se nell’assemblea cittadina o in qualunque altra sede si dovesse decidere chi scegliere come medico, in nessun caso risulterebbe scelto il medico, bensì la persona abile a parlare, se solo lo volesse. E posto a confronto con qualunque altro esperto, l’uomo padrone della tecnica retorica convincerebbe a scegliere se stesso piuttosto di chiunque altro. Giacché non esiste argomento sul quale un uomo, padrone della tecnica retorica, potrebbe parlare in modo più convincente rispetto a qualunque esperto in genere». Sono parole che Platone attribuisce al sofista Gorgia, nell’omonimo dialogo: esse rivelano con impressionante chiarezza potenzialità e pericoli della persuasione. Di questo argomento antico, ma oggi così centrale, si può parlare in tanti modi. Laura Pepe ne tratta con ricercata levità, unita a spunti più seri: La voce delle sirene I Greci e l’arte della persuasione (Laterza «i Robinson/Letture», pp. X-206, € 18,00). Si parte da Omero, e a Omero si ritorna al termine del percorso: evocando prima il suadente e mortifero canto delle sirene, poi le regole del discorso pubblico, in assemblea e in tribunale. Gli antichi riconobbero in Omero gli incunaboli della tecnica retorica, sviluppata e teorizzata secoli più tardi: «Tra le battaglie (…), nel carme suo sempre sonanti» stanno pure grandi parlatori, importanti scene di assemblea, e perfino, nell’ambiguo Tersite, una figura di «oratore scriteriato» (studiata anni fa in un brillante lavoro di Luigi Spina).
Se la persuasione come seduzione erotica o conoscitiva è evocata attraverso qualche mito (e non poteva mancare Elena), poi il libro si sposta, finalmente, verso la storia e la politica: verso Atene, una democrazia nella quale lo spazio della persuasione era grande. L’assemblea cittadina era luogo di decisioni molto importanti, derivate da dibattiti in cui qualunque cittadino poteva prendere la parola e dire la sua. Ma solo chi creava esteso consenso poteva determinare le scelte anche della politica. L’accesso potenzialmente indiscriminato alla parola pubblica è un tratto democratico (lontanissimo, per far un esempio, dalla prassi romana): l’abilità oratoria di chi sa convincere poteva così affermarsi, nell’Atene classica, a spese del prestigio aristocratico, ma anche a discapito della competenza tecnica (punto spesso sottolineato dagli avversari della democrazia). La parola era arma potente, e come tale celebrata proprio da Gorgia, ma comportava gravi rischi: per essere convincente, un discorso non ha bisogno d’esser veritiero, né morale, né giusto. Ciò valeva anche per il discorso politico. Solo la personale rettitudine di Pericle, se vi fu, consentì che egli guidasse il popolo, come credeva Tucidide, più di quanto non ne venisse condizionato. Non accadde così, forse, in fasi di democrazia più radicale, quando la persuasione venne anche dalla parola di individui senza scrupoli, capaci di sfruttare abilmente l’emotività della massa, indotta a scegliere il proprio male. Ci si chiese, già allora, come fosse possibile proteggersi dal pericolo dei persuasori, visibili o occulti. I sofisti antichi, maestri di retorica, sostenevano che chi insegna la tecnica di persuasione non sia responsabile dei possibili abusi che derivano da un uso scorretto. Sarà così?
Lo scrutinio dell’argomentazione, lo sceveramento di verità e menzogna dell’argomentazione richiede un esame attento: era tale quello, minuzioso e analitico, proposto da Socrate. Ma l’occasione di praticarlo era (e resta) rara, e non solo in politica. Anche in tribunale, dove pure ci si aspetterebbe un destinatario competente, la persuasione può prevalere totalmente sul vero: tanto più se le giurie, come in Atene, non sono formate da tecnici. L’arringa, come ricorda un aneddoto, è costruita per essere udita una volta sola. Serve a persuadere qui e ora, non lascia cogliere debolezze o eventuali forzature dell’argomentazione, che oggi sono ben rilevabili dalla lettura del testo scritto. Nel libro, lo si prova con una celebre orazione di Lisia: quella di un marito cornuto che uccise l’amante della moglie, chiamati i testimoni, in accertata flagranza di reato. Testo famoso, qui analizzato in punto di diritto, svelandone meccanismi e capziosità: indicativo l’appello alla parzialità dei giurati, esortati a esprimersi aull’omicidio come se il fatto – ossia il tradimento – fosse capitato a loro. Concentrando ogni colpa sull’amante morto, l’imputato al quale Lisia preparò il discorso di difesa lasciava in ombra le responsabilità della moglie, e con esse quel che restava dell’onore familiare.
Altro esempio considerato da Laura Pepe è il discorso che, secondo Platone, Socrate pronunciò nel processo da cui uscì condannato a morte, nel 399 a.C. Un testo complesso, per tutte le difficoltà poste da ogni testimonianza relativa a Socrate, ma qui trattato soprattutto per discutere sulla persuasione falsa (quella indotta dalle accuse) e sulla verità (quella faticosamente acquisita dal saggio e proposta orgogliosamente alla giuria). La battaglia di Socrate (e Platone) contro il mondo dell’opinione, nemico dell’assoluto vero, ebbe sviluppi che vanno oltre il tema del libro. Va ricordato per altro che la polemica contro la falsa persuasione aveva valore di lotta per la libertà, se è vero che solo la verità rende liberi. Al di fuori della seduzione di sirene, o del consenso di retori ambigui, sta la figura, ben nota al mondo greco, di chi persegue il vero, con determinazione anche brutale: sono i seguaci della parrhesìa. La franchezza di chi parla senza autocensure, e senza cercare consenso, è malvista e perciò rara: ancor più oggi, perché, come notava Foucault, talora «svela una verità che mette paura alla maggioranza». Nel nostro presente, in cui la verità è variamente offesa, sì da apparire un lusso che non ci si può più permettere, il tecnicismo scettico dei sofisti è certo più attuale rispetto al radicalismo socratico o alla parrhesìa del predicatore di verità sgradevoli. Ciascuno comprende che si può creare opinione su qualunque tema, ma che su nessuno si consegue la verità (né si cerca di farlo).
Su temi simili, i Greci hanno ancora riflessioni da proporci: perché essi compresero che la parola suadente è una forma di potere. Ma questo argomento, come altri, meglio lo si comprende attraverso un discorso di Tucidide o una pagina di Platone, che per mezzo di un mito. L’esigenza divulgativa, la ricerca della leggerezza e certo spirito del tempo inducono a dedicare spazio sempre più ampio al racconto. La suggestione delle leggende determina così, in molti libri recenti, un «classicismo di ritorno», contemplativo e esclamativo. Sembra dimenticata la lezione di quei maestri del Novecento che insegnarono a guardare i Greci antichi senza «miracolo». Secondo gli odierni parametri, quei maestri, come Louis Gernet e altri, sono forse troppo poco friendly: giacché il loro discorso univa, per certo, persuasione e verità.