«Tutte le arti tendono alla parola, ma la parola al silenzio». Suona così uno degli enunciati conclusivi di Linee per una fenomenologia dell’arte, il piccolo capolavoro che Carlo Diano dedicò nel 1956 a Sergio Bettini, pubblicandolo nella collana «Problemi di critica antichi e moderni» che egli dirigeva per l’editore Neri Pozza, amico dei due grandi studiosi.

Grazie a una delle ultime, meritorie imprese che Maria Bettetini è riuscita a impostare, quel saggio troppo poco conosciuto torna oggi in libreria nello splendido volume delle Opere di Carlo Diano (Bompiani «Il Pensiero Occidentale», pp. 2112, euro 75,00), curato in modo meticoloso e appassionato da Francesca Diano e arricchito dai contributi rilevanti di Massimo Cacciari e di Silvano Tagliagambe.

A più di cinquant’anni dalla seconda edizione (1968), Linee per una fenomenologia dell’arte si riunisce dunque – formando un trittico perfetto – a Forma ed evento. Principi per una interpretazione del mondo greco (1952) e a Il pensiero greco da Anassimandro agli Stoici (1955, oggi Bollati Boringhieri), ma anche alle sillogi Saggezza e poetiche degli antichi (1968), Studi e saggi di filosofia antica (1973), Scritti epicurei (1974), nonché a testi rari e importanti come D’Annunzio e l’Ellade (1963), Sfondo sociale e politico della tragedia greca (1969) o alle note introduttive dell’Elettra (1968) e della Medea (1972) di Euripide (rappresentate nelle versioni di Diano al Teatro Greco di Siracusa), a La tragedia greca oggi (1974) e al postumo Introduzione all’Alcesti.

Gli scritti di Diano brillano così di nuova luce rivelando saldissimi legami interni, a volte evidenti altre velati ma esposti nelle ricche note della Curatrice che, insieme alle notizie biografiche e ai documenti (il Curriculum del 1948 e la Relazione sull’attività scientifica di sei anni dopo), donano a questo poderoso volume il tenore deciso della biografia intellettuale. Non solo: un’ultima sezione, di più di trecento pagine, è dedicata agli «Inediti», e presenta, nell’ordine: la produzione lirica (comprese le traduzioni di alcune poesie di Lagerkvist), che è stata sì, in parte, già pubblicata, ma che solo qui appare, nella sua lunga continuità, come un «insieme omogeneo»; la tesi di laurea del 1923, cioè il «Commento a Leopardi» – dove l’allievo ventunenne di Gentile, a lui legato da un sentimento filiale («ebbe per me le cure di un padre»), si spinge fra l’altro a sfidare e respingere con argomenti rigorosi la tripartizione progressiva delle Operette morali offerta dall’edizione del maestro (e cioè nientemeno che l’interpretazione gentiliana della filosofia di Leopardi, che è naturalmente coerente con quella divisione); e, infine, l’autentica, duplice gemma dei Quaderni preparatorii per Forma ed evento e Linee per una fenomenologia dell’arte redatti quasi interamente fra il 1950 e il 1951 e trascritti da Francesca Diano con la collaborazione di Angiolina Martucci Lanza: si tratta di materiali certo importantissimi, fra l’altro per il confronto con Heidegger (letto anche attraverso Lévinas) e con Kerényi (sul problema della festa).

Le prime grandi ricerche di Diano furono dedicate all’opera di Epicuro, e nacquero «per caso» o «da ragioni puramente filologiche». Ma sin da subito egli scoprì in quelle ragioni un’esigenza teoretica, che era a sua volta inseparabile – per colui che, come scrisse Bettini, «si riconosceva scolaro, soprattutto, di Giorgio Pasquali» – dal rigore storico: perché la dimostrazione non può che nascere dal suo stesso oggetto e «come non si può fare la filologia di un poeta senza poetare, chi fa la filologia di un filosofo deve filosofare, e non in termini generici e astratti, ma entro precisi limiti storici e di contenuto e di forma, che è come dire di lingua». Non si trattava soltanto di avvicinare il cosiddetto oggetto di ricerca con le maggiori cautele e attraverso la metodologia più rigorosa, ma di definire e scoprire gradualmente il metodo stesso nell’oggetto, o l’uno e l’altro insieme, poiché essi coincidono nell’ordine del linguaggio. Con una formula sintetica: proprio «Epicuro sa quel che dice e perché e come lo dice». Filologia e filosofia dovevano così unirsi in un movimento che dalla parola tornava alla parola: il testo andava dapprima emendato attenendosi ai «soli elementi formali e sostanziali», quindi situato nella sua epoca, cioè nella storia dei problemi in cui era sorto, per ritrovare infine la logica sistematica che poteva dar ragione anche del singolo termine o della singola frase.

Far emergere la pre-comprensione dalle cose stesse, era per Heidegger la legge del «circolo ermeneutico». Diano parlava piuttosto di un «gorgo» nel quale «tratto di cosa in cosa più in fondo, io girai molti anni. Ma i risultati – precisava – furono copiosi». E lo furono, possiamo continuare, non solo perché compresero oltre a diversi saggi mirabili – da La Psicologia d’Epicuro e la teoria delle passioni a La poetica di Epicuro e Questioni epicuree fino a La filosofia del piacere e la società degli amici – le edizioni esemplari (uscite nel 1946) delle Lettere e degli Ethica – quest’ultima rielaborata nel ’74 e appena restituita al grande pubblico (Epicuro, Scritti morali, a cura di Carlo Diano, nuova edizione aggiornata e rivista da Francesca Diano, Rizzoli «Bur», pp. 240, e 10,00) – ma perché condussero «senza soluzione di continuità» all’esplorazione di un più ampio ciclo di immagini, ossia a una nuova e coerente precisazione del metodo.

Se la filologia si svolgeva come storia dei problemi, e se questa era nel senso più ampio e più vero una semantica o una terminologia, una parola doveva infatti imporsi per le sue «risonanze (…) in tutte le sfere dell’esperienza».

La parola era tyche, e Diano vi riconobbe subito non un concetto ma la categoria fondamentale che gli storici delle religioni avevano tentato di definire col feticismo, l’animismo, il totemismo o come potenza o mana. «Voi adoperate il nome che volete, io mi servo di quello al quale ricorrevano i Greci, e dico: una tyche, un evento. È la cosa come evento che sorprende, che appare altra, che fa oscuramente pensare all’azione di una potenza e denuncia la presenza del dio. Ognuno di noi ne ha fatto e ne fa continuamente esperienza».

Ma con quella parola era l’intero arco della grecità a illuminarsi, poiché la nuda manifestazione dell’evento – cioè non di un semplice accadimento bensì di ciò che colpisce il soggetto, hic et nunc – richiamava immediatamente l’opposta polarità della forma, ossia la costante, necessaria tendenza dell’uomo a dominare o a ridurre la potenza numinosa, dandole innanzitutto un nome e conferendole un significato universale. L’evento, al contrario del semplice accadimento, non è infatti situato in uno spazio e in un tempo ma spezza il corso indifferenziato della durata e «temporalizza il nunc e localizza l’hic», ponendo in rapporto la puntualità del luogo e dell’istante con la periferia infinita da cui proviene. Questa relazione è esistenziale, spiega Diano, sentita e non pensata, pre-cosciente.

Ma se è vero così che per noi i luoghi hanno una data e sono reali «solo in quanto quella data è attuale e si fa presente come evento», è vero anche che il luogo ha un nome, e il nome, la prima e più semplice di tutte le forme, chiude l’evento, ne circoscrive la potenza, libera l’uomo dalla paura, lo orienta nell’azione. E parimenti la forma più complessa, il mito, è una definizione dell’evento, archetipica e costantemente ripetuta nel rito. Senza il rito il mito è solo favola e, non ripetuta, la spaventosa coincidenza della periferia infinita col «qui e ora» sfugge alla comprensione e al dominio dell’uomo. Certo, già per Walter F. Otto il rito e il culto si univano al mito nel fenomeno originario della Gestalt. Ma quando Diano chiama mito la «figura dell’evento» compie uno scarto decisivo: concepisce le sue categorie puramente fenomenologiche (cioè storiche, non metafisiche) in una opposizione polare utile a interpretare ogni civiltà quale «x» fra l’estremo della pura forma, l’eidos platonico e aristotelico solo contemplabile, e l’evento solo vissuto e senza nome. E se l’arte è la sintesi di forma ed evento, «non vi è cosa umana», come Diano scrisse a Kerényi, «che possa essere trattata diversamente».

La musica è l’arte del suono dominato solo nel ritmo, la più prossima all’estremo dell’evento; la scultura è l’arte meno eventica, o più genuinamente greca. L’architettura spazializza e visualizza il ritmo; la pittura è vicina alla musica, poiché spazializza e visualizza le tonalità sonore. Da parte sua, la forma è infatti «indifferente al colore», come si legge negli appunti del 1950-’51, «e se ne ha uno, dev’essere uniforme – Dipingete realisticamente l’Apollo di Kassel. Che orrore!». L’arte della parola comprende invece in sé «ritmo e suono, plasticità e colore, temporalità e struttura», è sintetica per eccellenza. Perciò tutte le arti tenderanno alla parola. Ma poiché forma ed evento non si concilieranno mai, poiché la sintesi è cosa umana e impossibile, la parola tenderà al silenzio.