«Una delle prima domande che apprendiamo da bambini è perché», scrive Alberto Manguel, nelle prime righe del suo recente Una storia naturale della curiosità (Feltrinelli, traduzione di Stefano Valenti, pp. 464 euro 25,00). E in un momento storico come questo, in cui la domanda è strangolata da centinaia di risposte non richieste, suona quasi come una presa di posizione politica. Nella retorica dell’emergenza, della risposta immediata, della slavina di informazioni che seppellisce anche solo l’istinto a ipotizzarla, la domanda, Manguel riparte dall’impertinenza affamata dei bambini. Ed è tanto più significativo che a proporlo sia uno tra i più singolari e eruditi tra gli scrittori e studiosi in attività. «Ben presto ci rendiamo conto che raramente la nostra curiosità è ricompensata da risposte convincenti».
La domanda dei bambini, sembra dire l’autore di Una storia della lettura (Feltrinelli 2009), è la prima evidenza che basta un punto interrogativo a mettere in moto le cose. Il «perché?» dei bambini è il gettone nella giostra del mondo, lo fa partire. Paradossamente, è la risposta che rischia di fermare il gioco, di cristallizzarlo in una forma. Per questo i bambini, più che essere delusi dalle risposte che ricevono, spesso non le ascoltano nemmeno, o non del tutto. Sono ansiosi piuttosto di avere la conferma che il meccanismo continua a funzionare. Infilano un altro gettone («E perché?») e sono felici nel vedere la giostra che riparte, il mondo che sfila nel suo assurdo caravanserraglio di draghi, automobili, cavalli, e fatine colorate.

Il punto interrogativo è il più efficace piede di porco per aprire le porte sbarrate dell’ignoranza, ci dice questo lungo viaggio dentro l’istinto a conoscere. Eppure «la visibile rappresentazione della nostra curiosità – il punto di domanda collato al termine di un’interrogazione scritta, nella maggioranza degli idiomi occidentali, avvolto su se stesso a sfidare il dogmatico orgoglio – è arrivato tardi nella storia. L’interpunzione non fu resa convenzionale in Europa prima del tardo Rinascimento, quando, nel 1566, il nipote del grande tipografo veneziano Aldo Manuzio pubblicò un manuale di punteggiatura per compositori tipografici, l’Interpungendi ratio». Tra questi c’era appunto il punctus interrogativus, a indicare «una domanda che convenzionalmente richiedeva una risposta». Un segno sulla carta come un gesto, un guanto lasciato cadere in terra, l’oscurità sfidata a duello, il mondo invitato a mostrarsi. Uno dei primi punti interrogativi rinvenuti (contenuto nella copia del sesto secolo di un testo di Cicerone) assomiglia a una scala che, partendo da sinistra, sale su. «Fare domande – conclude Manguel – ci eleva».

La curiosità, ci dice questo libro, è questo protendersi per tentare di afferrare ciò che non si conosce. Una storia naturale della curiosità è, tra le tante cose, il racconto di quel gesto di sfida. Da Eva nell’Eden a Prometeo punito per aver rivelato agli uomini un mistero, la storia della curiosità è il catalogo dei fallimenti dell’uomo nel suo più o meno empio assalto alla diligenza del mistero.

La divina commedia è per Alberto Manguel l’articolazione massima, e sublime, della curiosità. Così come nel suo viaggio Dante chiede aiuto a Virgilio, Stazio, Beatrice e San Bernardo, così Manguel si fa accompagna da Dante nell’ascesa verso la domanda successiva, dando l’avvio a ciascuno dei diciassette capitoli/domande in cui si articola il libro. I pioli della scala su cui Manguel si avventura sono tutti i tentativi fallimentari con cui, nel corso della storia, gli autori hanno dato parole a quel gesto. Quante parole ci vogliono, sembra dire, per articolare una domanda che non avrà mai risposta?

Da Montaigne a Cervantes a Oliver Sacks, da Erodoto a Conan Doyle, passando per Auden, Platone, Derek Walcott, Kafka, Aristotele e Lewis Carrol, Manguel apre di fronte al lettore una sbalorditiva biblioteca che poi sfoglia con polpastrelli febbrili, alternata da brevi e partecipati racconti autobiografici di formazione. Perché la storia della curiosità è anche la storia dell’immaginazione come unica possibilità di vita («Secondo la teoria darwiniana, l’immaginazione umana è uno strumento di sopravvivenza. (…) Montaigne avrebbe convenuto: immaginiamo al fine di esistere, e siamo curiosi per nutrire il nostro desiderio immaginativo»), e però non esisterebbe senza i fallimenti, perché i fallimenti lasciano un altro gettone da giocarsi nella scommessa sul senso delle cose.
Citando Beckett, Alberto Manguel chiosa: «Tentare di nuovo. Fallire di nuovo. Fallire meglio».

«Io sono una domanda rivolta al mondo», dice Jung, e a rendere pressante quella domanda, sembra confermare in filigrana Storia naturale della curiosità, è la morte. Solo la morte che si approssima la rende urgente e disperata. Domandare diventa quindi cercare una guida per approssimarsi a quella linea, e al tempo stesso ipotizzare (la sfida empia, ancora) una via di fuga. «S’impara quando si cerca una via di scampo – scrive Kafka. Si impara disperatamente». È a metà della sua vita, quando vede la miccia consumarsi, che Dante scioglie quella domanda dentro le sue terzine, su su fino al Paradiso dove c’è Beatrice che l’aspetta. Sa, o spera, che qualcosa gli sopravviverà, come gli sopravvivono tutte le anime che incontra, ciascuna con il contrappasso che le spetta. I libri sono le vere guide, e questa è forse l’unica lezione che si impara dall’aver attraversato uno dopo l’altro tutti i fallimenti che contengono. La curiosità è la vertigine di provare ad aprirli scostando appena – tra paura e desiderio – il velo dell’ignoto. La curiosità è prendersi cura di quell’ignoto. Sono i libri che ci hanno preceduto, che ci guidano.

«Nel Medioevo i lettori usavano come strumento divinatorio l’Eneide di Virgilio, facendosi una domanda e aprendo il volume in cerca di rivelazione. Robinson Crusoe faceva all’incirca la stessa cosa con la Bibbia per trovare una guida nei lunghi momenti di disperazione». È in quei momenti che la morte si affaccia e mostra il suo volto tremendo. Manguel non pensa che i libri siano un antidoto alla morte, ma è certo che dove una domanda vive trasformata in una storia, lì è la vita che resiste con tutte le sue forze.
Ricoverato d’urgenza in ospedale per un ictus, lo stesso Manguel – racconta in pagine commoventi – chiede alla letteratura di notificargli la vittoria della vita: «Cominciai a recitare nella mente brani di letteratura che conoscevo a memoria. Il flusso venne da sé: poemi di San Giovanni della Croce ed Edgar Allan Poe, brani di Dante e Victor Hugo, poesie burlesche di Arturo Capdevila e Gustav Schwab risonavano chiare nel buio della mia stanza d’ospedale». I libri, questi generatori di curiosità che la stessa curiosità ha generato, contengono tutti i tentativi, sono tutte le mappe potenziali verso una destinazione che nessuno ha mai confermato di avere raggiunto. Perché, dice Manguel con Dante, lì manca la parola, la parola ammutolisce, lascia il passo all’indicibile. Ma il fatto di provare a dirlo, per quanto empio, è l’unica chance che all’uomo è riservata. Per quanto fallimentari, i libri si protendono dagli scaffali delle biblioteche e fanno il tifo per ogni altro avventuriero. Probabilmente si affezionano agli intrepidi che li hanno consultati perché l’attraversamento fosse più lieve. E forse si sentono soli, quando poi gli intrepidi se ne vanno, disciolti anche loro nell’ignoto. Per questo, scrive Manguel, «Desidero che quando morirò qualcuno dica ai miei libri che non tornerò».