Un dispositivo creativo che mette a nudo la realtà, che ironizza sulla storia e ferisce il senso comune per mostrare i fantasmi della memoria collettiva, per scardinare il mondo dell’immagine, per creare un percorso anomalo dell’arte. Di un’arte che si nutre di echi massonici e rosacrociani, di riferimenti simbolisti, filosofici, psicanalitici, magici.

La parabola estetica messa in campo da Vettor Pisani muove da un comportamento alternativo dell’arte che scardina, disarciona, traveste e investe di nuovo senso le cose. I suoi sono sguardi tradotti in visioni, rappresentazioni trasformate in epifanie, in rivelazioni, in apparizioni di esseri, di cose, di forme lontane o vicine nel tempo. Nato a Bari nel 1934 – anche se ha sempre giocato sulla propria origine per creare una sorta di biografia ad arte («figlio di un ufficiale della Marina e di una ballerina dello strip-tease nasce a Napoli nel 1934», si legge in una presentazione del 1985; «architetto e muratore, Rosacroce: diciottesimo grado dello scozzesismo è nato nell’Isola d’Ischia», fa scrivere in un catalogo del 1991 realizzato in occasione della mostra Trenta anni di avanguardie romane) –, Vettor Pisani sente l’esigenza di unire fotografia, scultura, installazione e performance per indagare, con necessaria e intelligente ironia, il mondo della vita, lo spazio teorico dell’arte, l’apparecchio culturale internazionale, il teatro della nuda crudeltà umana, scoperchiata, abitata da idee, desideri e illusioni.

Muovendo da quello che Filiberto Menna ha definito «discorso critico affidato alle immagini», una «opera come critica» più precisamente, Pisani mostra, già nelle sue prime manovre creative, la chiara volontà di elaborare un programma che «colpisce l’arte servendosi dell’arte» (Calvesi). L’artista è, difatti, «naturalmente critico, implicitamente critico, proprio per la sua stessa struttura creativa» (Lonzi), per una volontà intromissiva che vuole rileggere, interpretare, tradurre e tradire l’arte (tra i suoi amici immaginari ci sono Marcel Duchamp, Piero Manzoni, Yves Klein e Joseph Beuys) attraverso gli strumenti stessi dell’arte.

«Ho mostrato degli oggetti che sono come delle parole per un critico d’arte», dichiara l’artista in occasione della sua prima personale – Maschile, femminile e androgino. Incesto e cannibalismo in Marcel Duchamp –, organizzata negli spazi della Galleria La Salita. «Ho fatto una mostra come fare il critico di Marcel Duchamp. Un critico che usa gli stessi pensieri, gli stessi mezzi e lo stesso linguaggio dell’artista, per parlarne».

Sin dal suo primo ingresso pubblico del 1970 (quello di un artista non giovanissimo e come venuto dal nulla), Vettor Pisani conquista la critica d’arte nazionale (nel ’70 vince, tra l’altro, la seconda edizione del Premio Nazionale Pino Pascali conferito dalla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma) mostrando progetti straordinari, strazianti, catastrofici (Racconto della catastrofe è un lavoro del 2011), dissacranti – un peso per esercizi atletici, Suzanne in uno stampo di cioccolato (ossia la testa della Venere di Milo in cioccolata), Carne umana macinata (carne macinata avvolta in plastica trasparente) e Giavellotto per un eroe da camera ne sono alcuni esempi brillanti.

Erotiche ed esotiche, sensuali, satiriche e passionali, oniriche e provocatorie, chimiche e comiche, le opere di Pisani trovano nell’apparenza del non-sense il punto di non ritorno che spinge lo spettatore (e, con lui, lo stesso sistema dell’arte) all’interno di un ambiente arcaico e profanatore che conserva intatto lo spirito prorompente e compiaciuto delle avanguardie storiche. Tra azione, presentazione e rappresentazione, il suo lavoro è un volo di ritorno al mito greco, al rito alchemico, alle teorie esoteriche e alle filosofie misteriosofiche, alla storia dell’arte e alla critica d’arte, alla dottrina rosacrociana e a un universo gotico-romantico «assolutamente inedito e fuori dai canoni accademici tradizionali» (Bonito Oliva). Un volo di ritorno che delinea la volontà di ricostruire, attraverso l’essere e il tempo, un brano che si nutre del teatro del mondo. E proprio al teatro, luogo iniziatico e metafora, dove convergono archetipi dell’immaginario collettivo, rimandi simbolici e mitologici, Pisani dedica, già all’inizio degli anni settanta, una serie di esercitazioni estetiche e teoriche che trasformano l’opera in una riflessione costante sull’arte, in una struttura simbolica, in un caleidoscopico edificio ricco di storie che abitano la mente.

Se nel 1975 presenta negli spazi della Galleria Sperone di Roma l’azione Il coniglio non ama Joseph Beuys, nel 1976, poco dopo, invitato alla 37. Biennale di Venezia, apre le danze a un progetto, Theatrum, che annuncia una ricerca, un ciclo di lavori (Il Teatro di Edipo, il Teatro della Vergine, l’Isola Azzurra, Il Teatro della Sfinge, Il Teatro di Cristallo) prolungati lungo tutto il corso della sua carriera artistica in cui l’opera diventa «la maniera e la misura umana di oscillare tra la presenza della domanda e l’assenza della risposta» (Bonito Oliva).

A questo artista esemplare, per aprire la sua nuova stagione, il MADRE di Napoli ha dedicato, oggi, una grande e importante retrospettiva (aperta al pubblico fino al 24 marzo), Vettor Pisani Eroica/Antieroica, la prima dopo la tragica scomparsa di un uomo che ha saputo trasformare l’arte in processo critico, in gioco e danza intellettuali, in attività mentale, in labirinto del pensiero, della meditazione, del silenzio.

Partendo da una prima sala a piano terra battezzata, sotto la nuova direzione di Andrea Viliani, Re_pubblica Madre, una sala dedicata alla musica, alle ossessioni, al rapporto con l’amico e compagno di strada Gino De Dominicis (indimenticabile è il Concerto invisibile di Gino De Dominicis del 2007), alla fine delle odissee ideologiche, alla liquefazione e al disorientamento, la mostra – a cura di Andrea Viliani e Eugenio Viola (curatorial advisor è Laura Chierubini) – propone un viaggio esclusivo a partire da Napoli. Da un «luogo dello spirito, dell’intelligenza, della conoscenza» (Viliani), che è, per Vettor Pisani, un ambiente familiare, uno spazio rivisitato con la forza dell’immaginazione, ripensato con un senso di appartenenza integrale.

Al terzo piano del museo, la mostra procede (i piani intermedi sono dedicati a una collezione che fa di Napoli e del suo racconto ad arte il nucleo di un progetto esclusivo) evitando la cronologia per immergere lo spettatore in uno spettacolo intenso che segue un organigramma tematico mediante il quale si riuniscono ossessioni fantastiche, motivi che ritornano rigenerati, riadattati secondo un gusto che elogia la vita e la morte, il divino e il profano, la storia e quello che storia non è. Da una prima stanza mentale in cui sfilano alcuni modelli visivi di un procedimento che sospende il tempo e da una camera dell’eroe (Venere di cioccolata) – opera centrale della personale alla Galleria La Salita – la mostra si articola, via via, con delle sale luminose sul Virginia Art Theatrum (Museo della Catastrofe), sulle isole, sull’organico, sul disegno e sulla trasparenza, sul progetto Lo Scorrevole (una sorta di binario per l’occhio, suggerisce Mimma Pisani che ha seguito con passione questa preziosa vicenda) e sulle declinazioni del plagio, sull’eros (sulla vergine e sulla pornostar) e sull’immancabile ironia. Per giungere, infine, dopo un percorso che sembra concluso, nella ex Project Room, dove è allestito l’Azzurro Pavone del 2005: una installazione ambientale costruita mediante semicroci, pietra filosofale in metallo, formelle in specchio e 2 pavoni.

Accanto al percorso espositivo, la retrospettiva si arricchisce inoltre di un Programma di (re)performance (curato da Eugenio Viola che, assieme ad Alessandro Rabottini presenta anche il secondo step del progetto Per_formare una collezione) che riaccende per la prima volta le tre azioni realizzate da Pisani tra il 1971 e il 1975 – Lo Scorrevole (riprodotta il 20 dicembre, in occasione dell’apertura), Il coniglio non ama Joseph Beuys (per il prossimo 7 febbraio) e Androgino (carne umana e oro) in programma per il 24 marzo – con lo scopo di ridare presenza corporea, assieme alle tracce raffreddate della fotografia e del video, al momento comportamentale dell’arte, a ciò che è stato e che mai più sarà.

Spostando l’asse su Bari, al Teatro Margherita inaugura domani (stesso titolo e stessi curatori) un secondo volume della mostra: un allestimento analitico atto a collegare città reale (Bari) e città ideale (Napoli) dell’artista per mostrare una ulteriore sfilata di opere – la incomparabile Melanconica pot. la tartaruga più veloce del mondo (ricostruzione della pedana originariamente usata nella performance al Castello Svevo di Bari, 1970, comprendente tartarughe e topolini vivi: opera realizzata per il Premio Pascali), L’uomo banale non è l’anti-eroe (1976), Viaggio nell’eternità (1996), il Tavolo anatomico di Isidore Ducasse (2008) e Europa laboratorio della follia (1999) ne sono alcune – che illuminano maggiormente la scena su un artista speciale e vitale che ha saputo mettere a dieta la critica e che ha inventato, lungo il suo cammino (inaspettatamente interrotto il 22 agosto 2011), un nuovo modo, intenso e concreto, di fare teoria.