In trenta giorni, i giorni di tutta la vita. Con un conto alla rovescia angosciante quanto surreale e a tratti perfino intriso di una comicità tutta slapstick (come suggerisce anche la copertina con Harold Lloyd alle prese con la famosa scena dell’orologio in Safety last), Claudio Giovanardi restituisce al lettore un personaggio inedito per la narrativa italiana contemporanea.

ACHILLE ANTINELLI, il pensionato metodico e abitudinario protagonista di A mezz’ora e trenta dalla fine (La Lepre Edizioni, pp. 320, 16,00 euro) ha le caratteristiche imprevedibili di un eroe capace di trasformare i propri difetti nella forma naturale di un’esistenza all’apparenza placida, eppure in profondità agitata da passioni e angosce. Nel momento in cui l’estenuante ticchettio da contatore dell’indeterminato diviene la forma esatta dell’esistenza, ogni rito perde coerenza ed efficacia e pulsioni e passioni liberano Achille in un gioco di associazioni e narrazioni di pensieri fino ad allora tenute agganciate alle abitudini.

IL SONNO, DA QUIETO RIFUGIO, si trasforma in una ostile e gelida prigione da cui fuggire verso una vita quasi sempre più inventata che reale – tuttavia proprio per questo nuovamente possibile. Il romanzo di Claudio Giovanardi ha un’andatura piana capace di veleggiare tra i pensieri in piena burrasca del proprio protagonista, pensieri che definiscono sia la narrazione che lo stato emotivo di Achille.
Un doppio percorso ben congegnato che trasforma la vecchiaia in una brillante e avvincente spy story in cui la rincorsa è il tema principale e vera e propria cornice di senso. In A mezz’ora e trenta giorni dalla fine stupisce il contrasto virtuoso tra una lingua quasi affabile che tira il freno rispetto a una tensione in naturale evoluzione, un uso calibrato e pienamente consapevole che non necessita di effetti e superfetazioni, ma anche una fiducia (quanto mai rara oggi tra gli scrittori italiani) per la forza di una lingua quasi sempre – in un senso o nell’altro – semplificata e ridotta a puro strumento, mezzo di trasporto di senso e non complice della sua stessa forma e costruzione.

SI DOVREBBE DEFINIRE Achille Antinelli un antieroe, ma è più preciso – considerato il contesto e il tempo dentro al quale prende forma la sua sfida – accreditare il confuso pensionato come supereroe che spezza l’ordinario pur standoci immerso. Un personaggio dunque che sogna seppur privo di speranza proprio per gustarne la viva libertà, così come l’amore che perde ogni forma e ogni fisicità, ma non la gioia del desiderio. Certo quasi tutto ha lo sguardo cupo del passato, ma non la sua nostalgia, non più la sua malinconia ora che la fine è data e quindi scoperta nella sua miserabile quanto ridicola semplicità.

TRA KAURISMAKI E PEREC, Giovanardi consegna al lettore il mondo visto attraverso gli occhi di un uomo qualunque alla fine dei suoi giorni. Un orlo drammatico e insieme un trampolino su cui diviene divertente poter ondeggiare in un equilibrio ingenuo perché inedito, un brivido di inaspettata giovinezza arrivata proprio alla fine. Un romanzo che nel conto dei giorni che mancano non solo coinvolge il protagonista, ma la narrazione stessa riuscendo con semplicità rara a dare forma a quella contemporaneità che fa del post il proprio, spesso inspiegabile e impalpabile, prefisso. Una slapstick story – come si diceva in apertura – però al rallentatore in cui ogni caduta è non solo cautamente affrontata, ma precisamente avvertita, voluta e sostanzialmente come la vita goduta, fino in fondo. Fino nel fondo di un sonno così profondo perché luogo reale del sogno.