Senza un pallone di football tra le mani da mesi, allontanato dalla National Football League, preso di mira dal presidente Trump. Ma nella lista dei candidati a personaggio dell’anno per la rivista Time, andato poi al #MeToo movement. Come il movimento anti discriminazione femminile, anche Colin Kaepernick, sino a qualche mese fa lanciatore dei San Francisco 49ers, nella Nfl, è uno che ha rotto gli schemi. Anzi, Kap – il suo soprannome -, ha creato un corto circuito nel sistema sportivo americano. Non ha vinto il premio di Time, ma era in compagnia di Trump, Kim Jong un, Xi Jimping, Jeff Bezos. E non ha un lavoro, un posto in campo. E’ l’uomo della protesta, il campione dello sport che si è inginocchiato durante l’inno americano, contro il razzismo, la brutalità perpetrate dalla polizia sulla comunità afro, due anni fa. Ha creato un’onda anti Trump, anti discriminazione tra gli sportivi, tra i tifosi. Dopo di lui si sono schierate le star dello sport, da Serena Williams a Lebron James, che è arrivato a dare del “buffone” a Trump via Twitter, oppure i Golden State Warriors, vincitori dell’ultimo titolo del campionato di basket professionistico, la Nba, rifiutandosi di fare passerella alla Casa Bianca a stringere la mano e mettersi in posa con il presidente degli Stati Uniti, liturgia osservata da decenni. Kap ha dato voce agli afroamericani feriti da quei manganelli dei poliziotti.

Si è messo di traverso a Trump, è divenuto un’icona per i neri, ma non solo. Però è disoccupato, la stagione della Nfl è iniziata a settembre senza di lui, pur essendo un buon giocatore, anzi di più, uno dei primi 30 dell’Nfl, certo non una superstar come Tom Brady o Peyton Manning. E questo perché il sistema sportivo americano che l’ha applaudito ora lo teme, la Nfl dei patron milionari e vicini ai Repubblicani lo teme. Il suo peso mediatico, la guerra personale che gli ha fatto Trump via Twitter (a lui, Lebron James e gli altri avversori il presidente cotonato dedicava un sons of bitch..) gli impedisce di lanciare l’ovale, di lavorare. Insomma, è una vittima, come lo è stato Simone Farina, l’eroe del calcio italiano che denunciava una tentata combine nel pallone sette anni fa, un Cesena-Gubbio di Coppa Italia aprendo di fatto un fascicolo alla Procura di Cremona – che avrebbe fatto cadere teste e piedi eccellenti – e che non riusciva più, dopo i peana e gli omaggi di dirigenti e vertici dello sport italiano, a strappare un contratto in nessuna categoria.

Sino all’addio, a un incarico da comunità coach all’Aston Villa, richiamato solo quattro anni dopo dal presidente della Lega di Serie B Abodi per un incarico da ambasciatore operativo. Allora avremmo gridato che una situazione del genere poteva verificarsi solo in Italia.

E invece gli Stati uniti hanno saputo fare peggio. Qualche sera fa Kap ha ricevuto il Muhammad Alì Legacy Award durante i premi annuali di Sports Illustrated, la Bibbia dello sport americano e mondiale. Una statuetta di Alì, il più grande di sempre, che va all’atleta con più impatto sociale nel mondo, ricevuta da Beyoncé. Per Kap per ora ci sono titoli, interviste, endorsement mediatici ma nessuna franchigia, il paradenti e il caschetto sono sul comodino di casa. Nessun accordo, solo voci, pochi contatti. Messo da parte dal suo microcosmo. A tempo indeterminato. Sino al punto dell’ipotesi ancora in piedi di denunciare la Nfl per una congiura dei proprietari nei suoi confronti, per aver stimolato i colleghi a reagire. A inginocchiarsi per tenere la testa alta, altissima.