Il nome era di quelli farlocchi, che inducono a pensare a qualcosa di ovvio, che non ha bisogno di spiegazioni. Se poi cerchi di analizzarlo, quel nome, o ricondurlo a una qualche logica grammaticale o semantica della lingua evocata non vuole dire nulla. Come il renziano Jobs Act: uno pensa a qualcosa come «azione per i lavori», e poi scopre che era l’acronimo di Jumpstart Our Business Startups Act, come negli Usa nel 2012 definirono un intervento di legge per le piccole imprese nascenti. Il nome farlocco applicato alla musica, che diventò poi una di quelle paroline che tutti associano d’istinto a un oggetto, è walkman. Suggerisce l’idea di una persona che cammina, o comunque in movimento, e che ha a che fare con la musica goduta e fruita in modo individuale, e tanto basti. Alla faccia del significato letterale, che non c’è. Era il 1979 quando in Giappone venne messo in vendita il primo modello di Walkman, sigla TPS-L2, un attrezzo sbalorditivo che permetteva di ascoltare la musica in qualsiasi contesto, con un paio di cuffiette. O due, perché, come vedremo, i primi walkman avevano ingressi per due paia di cuffie.

CLANDESTINO
Idea semplice e geniale di un quarantennio esatto fa, e come tutte le idee semplici e geniali, totalmente innovativa. Perché comportava una slavina di conseguenze nuove sulla fruizione della musica, del tempo libero, dello spazio, delle proprie abitudini di vita. Il primo Walkman aveva un’estetica spartana ed efficacissima , e costava circa 200 dollari. Per quattro quinti era di un azzurro carico, per un quinto sfoderava una luccicante sfumatura cromatica argentea che lo faceva sembrare un oggetto abbandonato dagli alieni, come nell’inquietantissimo Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Strugatzki. Al centro comparivano i due pignoni trascina nastro, sul frontale del portellino da aprirsi per incastrare la musicassetta una frecciona indicava la direzione di marcia del nastro magnetico. Poco altro, oltre al marchio Sony in bella vista, e quella definizione dell’oggetto stampigliata a presente e futura memoria: walkman. Che, in effetti, non fu usata all’inizio sul mercato del Regno Unito: il walkman venne venduto originariamente come Stowaway, dunque «passeggero clandestino», come gli immigrati nascosti nelle stive dei barconi o attaccati sotto i tir di oggi. Si voleva alludere al fatto che un gioiellino del genere occupava poco spazio, e si poteva dissimulare in tutta fretta nella tasca d’un giaccone o in borsa.
Medesima sorte negli Stati Uniti, dove il Walkman per un po’ fu il Soundabout, un accenno a qualcosa che «suona bene». A prescindere, come avrebbe detto il grande Totò. Ogni invenzione nel campo sterminato della possibilità di conservare e riprodurre il suono, tecnologie relativamente giovani, visto che risalgono alla seconda metà dell’Ottocento, comporta inevitabilmente il suo bel carteggio di polemiche sulla primogenitura. Anche il Walkman non fa eccezione: riandando alle origini si può agevolmente scoprire che Kozo Oshone, manager Sony, assieme ai colleghi scienziati e cofondatori della Sony Akio Morita e Masaru Ibuka ebbero una bella querelle con strascichi legali miliardari con Andreas Pavel per il diritto di primogenitura nell’invenzione della scatoletta che permetteva di portarsi la musica in giro.

UN GENIALE INVENTORE
Chi era Pavel? Il figlio di un industriale tedesco trasferitosi in Brasile capo programmista, dal 1967, di TV Cultura, in forza dei suoi brillanti studi di filosofia e scienze sociali che lo portarono, anche, a occuparsi con rigore tra i primi di MPB, la musica popolare brasiliana invisa alla dittatura. Casa Pavel, in effetti, con la sua bizzarra forma ad arco di alto design disegnata dall’architetto Ronaldo Duschenes fu un’isola di cultura nella miseria e nella ferocia della dittatura dei militari oggi rivalutata dall’orrido Bolsonaro: e la straordinaria qualità acustica delle sue stanze un punto di riferimento per chi chiunque volesse «testare» dischi o strumenti musicali. Pare che lì, nel ’72, Pavel ebbe l’intuizione di un hi-fi portatile e personale. A metà degli anni Settanta Pavel si spostò prima a New York e poi a Milano, dove diventò uno dei primi produttori di videoclip, e trovò modo di collaborare anche con uno dei più visionari talenti della storia del jazz, Sun Ra con la sua Arkestra. A Milano ebbe l’idea di lavorare su un sistema ad alta fedeltà personale e portatile, e finalmente realizzato un prototipo lo presentò alla Yamaha, alla Uher, alla Brionvega e a molti altri marchi di prestigio. L’interesse maggiore lo mostrò proprio italiana Brionvega, ma prima che il progetto potesse mettere le ali, dopo la registrazione del brevetto in Germania, ecco che, curiosamente, la Sony l’1 luglio 1979 lancia il Walkman sul mercato. Alla reazione di Pavel su un possibile furto di idea, la Sony cercò (e trovò) un accordo su possibili diritti del geniale inventore, premurandosi però di togliere dai modelli migliorati del walkman due trovate di Pavel: la doppia uscita per cuffie, che consentiva a due persone di crearsi un’unica «bolla sonora» d’ascolto, e il microfono che permetteva di poter continuare a parlarsi sfruttando le cuffie. Seguirono anni di liti giudiziarie spietate, alla fine delle quali, e dopo la morte di Akio Morita, Pavel si ritrovò con un risarcimento da 10 milioni di dollari, parecchie royalties sui vecchi modelli, e il diritto di poter reclamare di essere l’inventore vero dello «stereo personale».
Il Walkman, che negli anni Ottanta si diffuse con un furore quasi esponenziale nei numeri di mercato, rappresentò un po’ il contrario del ghetto blaster (il «detonatore del ghetto», detto anche boom box o third world briefcase, la «valigia del terzo mondo»): un ingombrante e potentissimo scatolone che, diffondendo a tutto volume nei ghetti rap e black music in genere sanciva una sorta di «presidio acustico» del territorio. Un confine che marcava la differenza tra un «noi» sonoro e collettivo e gli altri, un marcatore di identità. Il Walkman, invece, come scrisse anni fa Paolo Prato, rappresentò da subito, con la sua caratteristica più evidente, l’ascolto iper-individualizzato delle cuffiette, un «teatrino segreto» per un solo spettatore, una «protesi che drammatizzò la relazione tra utente e spazio fisso», neutralizzando il sempre più invasivo suono delle metropoli. Era entrata in scena insomma la musica come tranquillante e comfort personale anche fuori dal proprio privatissimo spazio domestico, perché lo spazio fisico del proprio salotto o della propria cameretta diventava quello pubblico e urbano tutto, a patto di avere indosso le cuffiette che inondano la testa con il proprio selettivo tranquillante o eccitante sonoro, la propria «placenta nutritiva» fatta di note, per usare un’altra espressione di Prato.

IL DECLINO
Il Walkman, conosciuto da tutti, e da tutti acquistato (oltre 330 milioni di esemplari venduti negli anni: prezzo sempre più economico, un centinaio di modelli diversi) diventò un simbolo. Una bella spinta la diede anche il mieloso Il tempo delle mele, il film del 1980 di Claude Pinoteau in cui compare una giovanissima Sophie Marceau che, assieme al proprio fidanzatino, ascolta dal Walkman musica romantica mentre intorno c’è il bombardamento acustico di una festa rumorosa. E al walkman è dedicata la canzone Wired for Sound di Cliff Richard. Nel 1983 le vendite di musicassette superarono quelle dei dischi in vinile: per l’enorme richiesta di musica per alimentare i walkman. Furono chiamati «walkman» anche i successivi lettori di cd, e di mp3. Poi un mesto declino nella logica del modernariato affettivo, con l’ultima fiammata di mercato di nicchia attizzata nel 2014 dal film I guardiani della galassia: il protagonista usa un walkman per ricordare i suoi tempi felici sulla terra. Perché il Walkman di oggi si chiama smartphone, e non ha bisogno di un nastro magnetico.