«Diana avrebbe potuto scegliere un’altra forma visibile: cerva, orsa; oppure, se davvero intendeva mostrare la propria essenza, una forma che avrebbe terrorizzato Atteone e che lo avrebbe così tenuto a distanza. E invece è l’opposto: adorabile in quanto dea, vuole esserlo anche in quanto donna in un corpo che, non appena lo si vede, fa ribollire il sangue a un mortale». Così leggiamo in Il bagno di Diana di Pierre Klossowski (1905-2001), ben tradotto da Giuseppe Girimonti Greco (Adelphi «Biblioteca», pp. 128, € 16,00) e pubblicato a qualche mese di distanza dal romanzo Il Bafometto. Originariamente apparso nel 1956, Il bagno di Diana fu reso in italiano per Silva Editore nel 1962 da Gian Franco Vené e per Franco Maria Ricci nel 1983 da Giancarlo Marmori, traduttore par excellence di Klossowski con il quale si instaurò un profondo sodalizio umano e intellettuale, in una versione postuma corredata dalla riproduzione del ciclo degli affreschi del Parmigianino a Fontanellato.
Oltre alle fonti classiche il mito di Diana e Atteone, investigato da artisti come Tiziano e Rembrandt, non poteva non affascinare un mitografo eterodosso come Klossowski, così sensibile al tema dell’erotismo e della dissacrazione, evidenti in tutta la sua opera: dalla trilogia Les Lois de l’ospitalité, incentrata sulla figura trasgressiva di Roberta, sorta di alter ego della moglie, all’esegesi della prostituzione sacra compiuto in Les origines cultuelles et mythiques d’un certain comportement des dames romaines (1968), tradotto dallo stesso Marmori per Adelphi nel ’73. Non bisogna dimenticare inoltre quelli che furono i numi tutelari del fratello di Balthus: il libertino blasfemo Sade e il Nietzsche oltranzista dell’«eterno ritorno», le cui figure furono affrontate in due testi fondamentali come Sade mon prochain (’47) e Nietzsche et le cercle vicieux (’69).
Il libro è una sorta di variazione, felicemente giocata sul binomio tra saggismo erudito e affabulazione di matrice mitopoietica, sul tema classico di Diana, sorpresa da Atteone mentre sta facendo il bagno, e artefice della metamorfosi in cervo del cacciatore: punito per la sua sfrontatezza, finirà sbranato dai propri cani. «Nunc tibi me posito visam velamine narres, / si poteris narrare, licet» rimprovera Diana ad Atteone nel passo delle Metamorfosi ovidiane citato in uno dei brevi capitoli del libro, mentre gli spruzza addosso l’acqua che lo trasformerà in uno degli animali da lui stesso cacciati. L’esegesi klossowskiana si sofferma ad analizzare una serie infinita di variabili della teofania, come quando affronta il legame con Dioniso, appartenente «alla stessa famiglia dell’illustre cinegeta», facendo da contraltare alle interpretazioni tradizionali di questa scena, secondo cui «il soggetto Diana nuda sorpresa da Atteone viene spiegato talora con la fatalità, talora con una deliberata intenzione di stupro», come riportato nei Chiarimenti che figurano in calce al volume.
Osserva Klossowski: «Atteone prova a vivere da cervo. E se ha agito così per effetto dei misteri di Dioniso, allora si può supporre che sia stato il delirio ispiratogli dal dio a dargli l’audacia necessaria per violare Artemide. Possiamo immaginare il “nipote” di Semele, già contaminato dalla nuova eresia, nell’istante in cui sprofonda nella sua meditazione su Artemide. Un esercizio siffatto deve necessariamente essere sacrilego, poiché si tratta di superare gli antichi limiti: per metterlo in atto, occorreva che Atteone perdesse coscienza; e che al tempo stesso sapesse di perderla, e conoscesse l’esperienza del delirio. Soltanto Dioniso poteva guidarlo, sostenerlo e assolverlo. Egli prepara il proprio crimine come sacrificio di sé ad Artemide; riceve la punizione della dea come una rivelazione: tramutato in cervo, penetra il segreto della divinità; dilaniato dai suoi stessi cani, prefigura il messaggio di Orfeo».
Sono presenti in nuce tutte le tematiche care a Klossowski: il superamento dei limiti umani che rimanda ancora all’opera di Sade e Nietzsche, il controverso rapporto con il trascendente, l’inestricabile connubio tra elementi sacri e profani definito da Blanchot «miscuglio di austerità erotica e dissolutezza teologica», la forte componente provocatoria che rinvia a immagini simboliche dall’accentuata valenza icastica (vedi il vezzo della mezzaluna tra i capelli o l’arco argentato di Diana) che presenta non poche analogie con gli scritti di un altro «irregolare» come Bataille, il quale, non a caso, diede vita con Klossowski all’esperienza della rivista «Acéphale».
Klossowski congettura sia una presenza demoniaca a manovrare questa sorta di pantomima teatrale o pas de deux instauratosi tra una dea che non poteva non sapere di essere sorpresa nella sua intimità e un cacciatore che si avventura consapevolmente verso il sacrificio, pur di entrare in contatto con un divino manifestatosi, paradossalmente, tramite sembianze umane. «Atteone pensava forse di istituire, sull’esempio dei cenobiti dionisiaci, un anacoretismo artemideo?» si chiede Klossowski, precisando: «il Bagno infatti non è altro che la purificazione delle immagini che il nome di Diana fa nascere nella sua mente: per trovare la vera sorgente in cui la dea si immerge, l’asceta deve risalire, nella notte oscura, sino alla nascita delle parole». Solo il linguaggio sarà dunque in grado, se non di sciogliere, perlomeno di fronteggiare l’enigma. Con una maestria da erudito d’antan: quella di Klossowski.