A capo di una casa editrice, pubblichereste le memorie di Donald Trump alla fine del suo mandato presidenziale? La domanda è stata posta da Isaac Chotiner sul New Yorker a Dana Canedy, appena designata vicepresidente del gruppo editoriale Simon & Schuster, nonché direttrice della sua sigla ammiraglia. Della nomina si è parlato molto sui media d’oltreoceano, non solo perché Canedy è la prima afroamericana a occupare una poltrona di questo rilievo nell’editoria statunitense, ma per i suoi rapporti finora piuttosto tenui con l’industria del libro.

Cresciuta in una famiglia di militari, a lungo reporter per il New York Times, autrice di un memoir, A Journal for Jordan, dedicato al suo compagno, morto in combattimento in Iraq, da tre anni Canedy dirige il premio Pulitzer, che lei stessa ha vinto all’inizio degli anni Duemila per una serie di articoli sulle divisioni razziali in America. Ed è grazie al Pulitzer, cinque delle cui categorie sono dedicate ai libri, che la ormai ex giornalista rivendica una competenza anche editoriale: «Sono stata io ad annunciare i vincitori in questi anni, a leggere le loro opere, a selezionare i giurati che avrebbero valutato i testi e a spiegare i nostri obiettivi». Obiettivi che Canedy ha chiari anche nel suo nuovo ruolo: «Vorrei vedere un numero maggiore di libri di non-fiction narrativa: autori noti, ma anche voci emergenti e sconosciute… E una maggiore diversità per quanto riguarda i temi: ce n’è bisogno, soprattutto ora in questo paese». E il libro di Trump? «Chiunque lasci la Casa Bianca ha in sé uno o più libri, e questi entrano a far parte della storia collettiva. Penso quindi che non sarebbe solo appropriato, ma importante».

Risposta diversa avrebbe certamente dato Jacob Stevens, direttore editoriale di Verso,  «la più grande casa editrice indipendente radical del mondo anglofono» (così si definisce nel sito), che – lo abbiamo scritto la settimana scorsa – compie nel 2020 cinquant’anni. Nata sulla scia dei movimenti sessantottini come costola della New Left Review, Verso ha poi conquistato la sua autonomia «ed è cresciuta – scrive Michael Barron su Publishers Weekly – fino ad avere oggi due redazioni, a Londra e a New York, per un totale di 29 dipendenti, con un gettito di 7 milioni e mezzo di dollari». I sette titoli del 1970 sono ora circa 1800, di cui 85 usciti quest’anno. Non solo: «Nonostante la pandemia, la casa editrice ha annunciato che le vendite sono cresciute del 40 % rispetto allo stesso periodo del 2019, come effetto di un aumento del 200 % delle vendite online». Merito di una politica editoriale che punta sulla coerenza più che sul successo immediato. Tra gli altri Barron cita il caso di un saggio del sociologo Alex S. Vitale,  The End of Policing, sulle derive brutali della polizia, pubblicato nel 2017 con poco clamore e diventato dopo l’uccisione di George Floyd un best-seller a scoppio ritardato.

Simile lungimiranza ha mostrato un’altra sigla giunta al cinquantesimo compleanno, la Feminist Press, «sede a New York, 6 dipendenti a tempo pieno e 2 part-time, per un catalogo di circa 375 titoli» nota Barron, che lascia la parola a Jamia Wilson, a capo della casa editrice: «Nel 2017, quando sono entrata, c’era una grande effervescenza in seguito alla Marcia delle donne a Washington, la più grande nella storia. Per questo il dizionario Merriam-Webster ha scelto femminismo come parola di quell’anno. Ci ha fatto piacere, ma sapevamo che quella parola ci aveva guidato lungo tutta la nostra esistenza. E a quanto vedo, avremo lavoro per i prossimi cinquant’anni, o anche cento e più».

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