La pandemia non ha fermato il Climate Camp. Si è concluso ieri il campeggio climatico organizzato dai movimenti sociali di Venezia e salito agli onori di cronaca, lo scorso anno, per l’occupazione del Red Carpet della Mostra del Cinema. E si è concluso col botto. Nel pomeriggio, le attiviste e gli attivisti climatici hanno occupato sino a sera la raffineria Eni di Marghera. “È il momento di fermare chi sfrutta e devasta il pianeta – hanno scritto su una nota per la stampa – Eni è tra le massime aziende italiane responsabili dell’estrazione dei carburanti fossili e delle emissioni clima alteranti. La nostra è una azione diretta contro chi provoca il cambiamento climatico”.

Proprio la pandemia, scrivevamo, non solo non ha fermato il Camp ma è stato il punto di partenza per rileggere la crisi, climatica ma anche sociale, che l’intero pianeta sta attraversando. “Il coronavirus è responsabile della prima crisi economica direttamente causata da un fattore ambientale – ha spiegato Antonio Pio Lancellotti, direttore del sito Global Project —. Questa seconda edizione del Camp l’abbiamo organizzata proprio a partire da questa riflessione”.

Niente tende sotto le stelle dell’isola del Lido, quest’anno. Soluzione che avrebbero reso impossibile rispettare le norme anti covid. Il Climate Camp si è spostato negli ampi spazi del Cso Rivolta a Marghera, da martedì 8 a sabato 12 settembre, con sedie distanziate almeno un metro e mezzo per assistere ai dibattiti, mascherina obbligatoria e misurazione della temperatura corporea a tutti i partecipanti. Confermata invece la linea “impatto zero” per un Camp totalmente vegano, con riciclo spinto dei rifiuti, alimentazione energetica di esclusiva provenienza dall’impianto fotovoltaico del centro sociale, il più potente di tutta la provincia, e con uso limitato di plastiche. I cambiamenti climatici, qui, nessuno se li è dimenticati.

“Proprio la pandemia ci ha fatto comprendere che non c’è più tempo per le mediazioni – continua Lancellotti – Con le riforme graduali non andiamo da nessuna parte. Abbiamo già visto in che direzione si sta muovendo la governance per rispondere alla crisi causata dal Covid: green capitalism, ripartenza di tutte le grandi opere e promesse disattese di giustizia sociale. Se vogliamo combattere la crisi economica che incombe e cogliere l’occasione per disegnare una società diversa abbiamo bisogno di nuove forme di welfare dal basso, di transazione ecologica per uscire da una economia ancora basata sui fossili, di diritto alla salute e di reddito garantito”.

Proprio il reddito garantito è stato alla base delle richieste dei lavoratori dello spettacolo, che non è solo luci e musica ma, dietro le quinte, è composto anche da migliaia di lavoratori a tempo determinato – costumisti, scaricatori, elettricisti, tecnici, a tanto altro ancora – che sono stati i primi a subire le conseguenze economiche del lockdown. Mercoledì 9, questi lavoratori invisibili si sono ritagliati uno spazio sotti i riflettori della Mostra del Cinema, con un partecipato presidio al Lido.

Come per il primo Camp, anche l’edizione di quest’anno ha spaziato tra dibattiti ed azioni, tra riflessioni ed attivismo. Dallo sbarco a palazzo Balbi sul Canal Grande con l’occupazione della sede della Giunta Regionale di cui abbiamo scritto nel Manifesto di sabato 5 settembre sino al sopracitato presidio al Lido. L’azione più spettacolare messa a segno dagli attivisti climatici del Camp è stata quella di giovedì 10 con l’occupazione e il blocco delle attività di EcoProgetto di Fusina. Un progetto questo, fortemente voluto dal Governatore del veneto Luca Zaia, e che, a dispetto del suffisso “eco”, con l’ecologia non ha nulla a che spartire perché consiste nella riapertura dell’impianto di incenerimento con due nuove linee destinate a bruciare rifiuti speciali ed inquinanti, compresi le contaminazioni da Pfas. Un progetto fortemente contestato dagli ambientalisti veneziani perché ripercorre la collaudata politica regionale di fare di Marghera la pattumiera del veneto.

“Se questo è il futuro che stanno preparando per risollevare il Paese dalla pandemia, noi rispondiamo che non è il nostro futuro ma la riproposizione di quello stesso passato che ha scatenato la pandemia – spiega una attivista – Gli inceneritori non risolvono il problema dei rifiuti ma rispondono ad interessi economici forti a discapito della salute dei cittadini. Sono il terminale di filiere consumiste ed energivore nemiche del clima, un perno di quel sistema capitalista che è la vera pandemia che l’umanità deve combattere”.