Non si può negare l’evidenza? Eccome, se si può. Lo fa il travaglio mentale di chi sostiene che il carcere sia il luogo più sicuro contro il Covid-19, squadernando statistiche alla Trilussa: ad oggi, sono 105 i detenuti e 209 gli agenti positivi al virus; solo 6 i morti, distribuiti equamente tra reclusi, guardie e medici penitenziari; dunque «l’ultima cosa da fare per mettere i detenuti al riparo dal contagio è scarcerarli». La sostengono in molti, questa incredibile sciocchezza: conviene, allora, mettere in chiaro alcune cose.

È l’assenza di uno screening dell’intera popolazione carceraria a illudere sulle dimensioni contenute del fenomeno. A dispetto delle apparenze, il carcere è una realtà porosa attraversata da un viavai di persone (guardie, personale amministrativo e sanitario, cappellani, volontari, avvocati, magistrati, parenti, garanti, pochissimi i parlamentari) e di detenuti trasferiti da un istituto all’altro (e chissà se, con le loro scorte, sono sottoposti al necessario tampone). Ecco perché le mura del carcere possono ritardare ma non impedire la diffusione del virus, agevolata da un sovraffollamento penitenziario di nuovo sub iudice: toccherà, questa volta, alle Sezioni Unite della Cassazione dirci se i 3mq a detenuto vanno calcolati al lordo o al netto degli arredi in cella, e di quali arredi. Dentro istituti di pena dove 55.030 detenuti sono stipati in 47.000 posti effettivi, il virus sarà il cerino acceso gettato nella tanica di benzina, com’è accaduto nelle residenze sanitarie per anziani.

È dunque da allibratori irresponsabili scommettere sull’impermeabilità del carcere al virus. Lanciare un’idea così balorda è come un boomerang che tornerà indietro con danni per tutti, a bomba carceraria esplosa.

Per disinnescarla, tutte le pertinenti raccomandazioni internazionali (dell’Onu, del Consiglio d’Europa, dell’Oms) invitano gli Stati ad assumere provvedimenti mirati a ridurre la popolazione carceraria. Vale anche per l’Italia: finché siamo in tempo, dobbiamo giocare tutto il possibile contro il probabile.

Conosciamo le coordinate da seguire. Servono «scelte giuste e creative», suggerisce Papa Francesco. E come in ogni emergenza – insegna la Corte costituzionale – gli organi dello Stato hanno «non solo il diritto e potere, ma anche il preciso e indeclinabile dovere di provvedere» (sent. n. 15/1982). Il loro agire si ispiri al principio di leale cooperazione – invocato dal Quirinale – che assicura efficacia all’azione pubblica. Da ultima, l’emergenza coronavirus «costituisca un elemento valutativo» nell’interpretare e applicare gli istituti vigenti, come suggerisce il Procuratore Generale di Cassazione.

Entro questo perimetro, tra le misure da mettere in campo c’è (anche) la grazia presidenziale: d’ufficio, parziale, condizionata, massiva. La invocano i Radicali e pochi altri, a mio avviso con buone ragioni.

Lo statuto della grazia è stato ridefinito da una sentenza costituzionale, la n. 200/2006. Presuppone «straordinarie esigenze di natura umanitaria», non tutelabili tramite strumenti ordinari. Oggi, adesso, subito, proprio di questo si tratta: assicurare la salute (e la vita) dei detenuti quale diritto indisponibile e come interesse collettivo. La conversione in Senato del decreto legge cura Italia non ha rimediato all’insufficienza delle sue misure deflattive. E un indulto è precluso a priori, perché esige – voto per voto – maggioranze dolomitiche calcolate su tutti i parlamentari, mentre oggi le Camere deliberano a ranghi ridotti, imposti dal distanziamento sociale.

Il potere di grazia risponde a «finalità essenzialmente umanitarie inerenti alla persona del condannato». Si tratterà, allora, di concederla prioritariamente ai detenuti più vulnerabili: anziani, oncologici, immunodepressi, diabetici, cardiopatici, ma anche le 42 madri recluse con i loro 48 bambini. Graziare detenuti il cui stato di salute è moltiplicatore di rischio previene, nell’interesse di tutti, l’innesco della catena epidemiologica.

La grazia è assoggettabile a condizioni per contenere rischi di recidiva: ad esempio, evitare condanne per reati non colposi entro tot anni dall’atto di clemenza, pena la sua revoca (e il ritorno in carcere). La salute pubblica, invece, andrà garantita dalle misure di profilassi disposte obbligatoriamente dal Guardasigilli per tutti i rilasciati.

In quanto provvedimento straordinario, la grazia va concessa con misura: ad oggi, il Presidente Mattarella ne ha firmate 20. In passato se ne contavano invece a migliaia: è una bulimia clemenziale che la sent. n. 200/2006 censura. Ma è la stessa Consulta a riconoscere che un’emergenza legittima «misure insolite», purché appropriate e non protratte ingiustificatamente nel tempo (sent. n. 15/1982). Viviamo una condizione pandemica inedita e atipica che richiede, legittimandola, una lunga scia di clemenze individuali costituzionalmente orientate. Il Quirinale ne motivi le ragioni, a sigillarne la copiosa concessione una tantum.

Collaboreranno, con l’Ufficio grazie del Quirinale, i magistrati (qui chiamati a compiti solo informativi) e il Guardasigilli (che non ha potere di veto), a garanzia della massima celerità istruttoria. Oggi, su tutte le istituzioni grava l’onere di fare le scelte giuste che, domani, si rovescerà nella colpa di non averle fatte. Vale anche per il potere di grazia. Signor Presidente, lo eserciti, nella misura massima possibile. Torno a chiederle: se non ora, quando?