Il Coronavirus sembra esserci caduto addosso come una goffa metafora. Obbedienti alla nuova paura, eccoci tutti girare con inutili mascherine, copiando i cinesi per non respirare cinese; pronti a essere sigillati in celle d’ospedale al minimo raffreddore; bloccati come migranti sulle navi da crociera per uno starnuto; proni all’ingiunzione di non viaggiare, non andare, non tornare; impassibili di fronte alla cancellazione dei voli. Il nostro ministro di sinistra dichiara: «Lo tratteremo come il colera!». Nemmeno i Gilet Jaunes, a quanto pare, protestano.

Com’è potente una paura singola, personale, circoscritta!

Nessuna di queste misure, nemmeno la più piccola, sarebbe accettata per scongiurare un pericolo mille e mille volte maggiore: quello dell’estinzione della razza umana, sebbene l’intero pianeta cominci a esserne consapevole.

Che cos’ha che non va la paura della distruzione di massa? Non ci riguarda abbastanza? È troppo vasta? Troppo collettiva? Troppo complessa?

Perché non siamo disposti a nessuna misura per salvare la terra su cui camminiamo? Perché l’aria avvelenata che respiriamo, i terre-maremoti che ci flagellano, le malattie e le cure che ci stremano, non suscitano in noi un allarme sufficiente a rivoluzionare la nostra vita? Perché corriamo petulanti verso qualsiasi cambiamento, tranne quello già in atto, il vero tsunami dei cieli? Perché siamo ansiosi di cambiare qualsiasi cosa, tranne la nostra vita avvelenata e tremante?

Questa domanda la pongo a tutte le mascherine bianche che corrono rassicurate alle loro faccende: che cosa tocca, che cosa turba i vostri cuori? La paura di far parte del 3% delle vittime del Virus, piuttosto che del 97% della malattia del Pianeta? Fa più paura una Pandemia che una Pangea? Tenete pure le mascherine, ma alzate gli occhi.