Ci sono epopee sportive finite nel dimenticatoio, soprattutto se si sono succedute a imprese ancora più gloriose. C’è un detto in sardo che fa: «Non è importante arrivare primi, ma in orario».
L’avventura calcistica del La Palma è accaduta negli anni ‘80 in Sardegna, dieci anni dopo il primo storico scudetto del Cagliari. Il La Palma non è mai arrivato in serie A, ma è stato protagonista di una cavalcata di promozioni consecutive fino alla C, in un periodo in cui il calcio poteva essere una salvezza per le comunità.
E i più sognavano rincorrendo un pallone di fortuna, sulla terra battuta di un campo che alzava polvere di stelle.

Bernardo Mereu
Il pifferaio magico di quella squadra che animava uno dei quartieri popolari di Cagliari, La Palma appunto, è stato un ragazzo che dai 10 ai 13 anni aveva vissuto da solo, dai Salesiani, ed era tornato nel capoluogo sardo già uomo, dove i suoi genitori vivevano, proprio a due passi dal campetto di terra grigia che l’avrebbe iniziato alla carriera di allenatore. Quel piccolo era Bernardo Mereu, uno dei mister sardi più vincenti di sempre.
Il calcio era croce e delizia del quartiere, «vissuto con molta passione ma con mezzi inferiori rispetto a oggi», ricorda. «Allora regalare un paio di scarpe a un giocatore, se non era affermato, era un grande regalo». A 14 anni il giovane Mereu fa il giocatore, ma in realtà ha sempre voluto allenare. Così prende in mano le redini della Superga, seconda squadra del quartiere, iniziando a ottenere buoni risultati a livello giovanile. La preside della scuola lo nota e gli propone di seguire la squadra dell’istituto. A 16 anni, un adolescente con una passione sportiva viscerale allena tutti i ragazzi del vicinato. «Vivevo per quello», confessa, «la mattina andavo a scuola, la sera al campo. È stato un periodo di privazioni, perché pur essendo coetaneo dei miei giocatori non potevo fare la loro vita. Non andavo a ballare, non mi mascheravo a Carnevale». Nel mentre La Palma, che era la prima squadra del quartiere, subisce diverse retrocessioni. Così il presidente Fiore Verderame chiede al diciannovenne Mereu di allenare la sua squadra. «È stato come ricevere una proposta dalla Juventus. Ho accettato subito, gratis».

La squadra staziona in seconda categoria, senza infamia e senza lode. Mereu la allenerà per sette anni, centrando sei promozioni. «Volevo solo far vivere a questi ragazzi, che avevano tra i 16 e i 27 anni, un sogno. E il sogno era farli arrivare tra i professionisti». La cavalcata dalla seconda alla prima categoria fino alla Promozione, poi all’Eccellenza e ai campionati nazionali di serie D e C è stata ancora più incredibile se si considera come il mister allenava la sua squadra. Data l’impossibilità di potersi allenare tutti insieme, «dovevo inventare un qualcosa che potesse permettercelo. Allenavo dalle 15:00 alle 17:00 gli studenti, poi facevo le altre due sessioni, dalle 18:00 alle 20:00, e poi dalle 20:00 alle 22:00 con quelli che lavoravano o facevano i turni di notte. Ripetevo lo stesso allenamento, non avevo mai più di dieci persone a disposizione. Di notte un’unica lampadina illuminava uno spazio di campo irrisorio. Il terreno di gioco c’è ancora. Adesso ci sono spogliatoi un po’ più grandi, il campo è sempre sterrato e brutto», continua Mereu divertito, «ma rispetto a prima è bellissimo».

E di quel rettangolo di gioco lui ha sempre avuto cura, accedendovi in silenzio, in orari insoliti. «La società era povera, per questo la mattina andavo a tracciare il campo di nascosto e pulivo gli spogliatoi. La panchina l’ho costruita io. Se questa striscia di vittorie e promozioni fosse stata realizzata in un’altra regione, probabilmente avrebbe avuto ben altro risalto».

Debutto nazionale
La serie D è stato tra l’altro il primo campionato a cui una squadra del cagliaritano avesse mai partecipato. Non solo, per la prima volta la D diventava nazionale. Intanto dal Cagliari Calcio, la squadra più blasonata che però in quegli anni scendeva di categoria, un paio di dirigenti se n’erano andati e qualcuno aveva bussato a quella squadra di quartiere che debuttava al ballo dei professionisti. Davanti a seimila spettatori, nello stadio che più di ogni altro ha scaldato il cuore dei tifosi, l’Amsicora, la Palma aveva vinto il campionato di serie D, alla fine degli anni ‘80. «Facevamo più spettatori del Cagliari, che era in C1 ed era allenata da Claudio Ranieri, col quale la squadra ritrovò entusiasmo, risalendo di nuovo di categoria fino alla serie A. Siamo arrivati a un passo dal derby di Coppa Italia. Quel successo è durato un soffio di vento. Giocavamo in alternanza al Sant’Elia, che conteneva ben 60mila tifosi. Quando ero piccolo sognavo anche solo di entrarci come spettatore. Ricordo l’esordio in Coppa dei Campioni del Cagliari nel 1970, contro il Saint-Étienne. Ero bambino, seguivo la partita alla radio perché mio padre non si era potuto permettere il biglietto. Non ero riuscito a entrare allo stadio neanche a dieci minuti dalla fine del match perché gli spalti erano al completo». Di lì a poco anche lui avrebbe portato la sua squadra in alto, un gradino sotto quello degli eroi.

Il vento del destino dei dimenticati soffia freddo e ingrato durante una partita che doveva essere importante nell’alta classifica della serie C. A Cagliari il La Palma ospita il Siena, ma in contemporanea gioca la Nazionale alla TV e al Sant’Elia sono solo dieci gli spettatori paganti. In quel momento si spegne qualcosa di irripetibile e la magia si spezza anche a livello societario. Il La Palma fallisce e riparte dalla 3° categoria, mentre la fede calcistica dei sardi torna come la parabola del figliol prodigo a centrarsi sulla squadra del cuore. Dopotutto, il Cagliari aveva vinto il suo primo e unico scudetto nel 1970, diventando anche la prima società calcistica del Mezzogiorno a raggiungere un tale traguardo. Mereu faceva le scuole elementari, era un bambino che sognava a occhi aperti.

La sua storia è quella di tanti sardi talentuosi che sono rimasti e hanno pagato le proprie scelte, ma che altrove avrebbero potuto spiccare il volo. In compenso, ha allenato quasi tutte le squadre sarde più importanti e lanciato molti giocatori. La storia ha deciso per lui che dopo oltre 40 anni di carriera di allenatore, sia oggi responsabile del settore Academy proprio del Cagliari Calcio, dove istruisce gli allenatori e fa il talent scout di cinquemila bambini. Altre generazioni e vivai che contribuirà ad appassionare al calcio. Uno sport che negli anni ‘80 era l’unico divertimento e la più bella distrazione dei giovani. Per molti, una vera e propria salvezza. «Erano tempi durissimi, molti ragazzi sono morti di AIDS e qualcuno è sfuggito pure a me. Uno l’ho visto non pochi anni fa in una delle vie principali di Cagliari. Era completamente fatto e voleva vendermi delle sigarette. Gli avevo dato dei soldi senza voler niente in cambio. Gli chiesi cosa ne avrebbe fatto, sperando che li impiegasse per rifocillarsi, ma me lo fece intuire. Due giorni dopo, lo ritrovai nei necrologi del giornale. Era morto di overdose».

Sogni infranti
Oggi uno dei protagonisti del ciclo memorabile del La Palma gestisce un negozio di animali. Si chiama Corrado Esposito, capitano e leader silenzioso di una squadra la cui storia dovrebbe fare ancora rumore. «Corrado avrebbe sicuramente meritato la serie A». Stessa sorte sarebbe toccata al suo ex allenatore? Nessuno lo saprà mai, ma forse la sua missione è sempre stata quella di far esaudire i sogni degli altri. O semplicemente di mantenerli vivi. Per non spegnere quella passione che può diventare anche occasione di riscatto. Perché nelle difficoltà i valori restano, e generazioni di sportivi si contenderanno per sempre un sogno mentre la storia ricorderà solo i vincitori. L’importante è prepararsi per arrivare pronti ai giochi del destino.