Oggi il consiglio dei ministri licenzierà il Def (Documento economico e finanziaria). Le indiscrezioni filtrate sono coerenti con il disegno di politica economica che il governo intende portare avanti. Ieri l’Istat ha fatto pervenire il conto economico della Pubblica amministrazione. L’indebitamento netto dovrebbe collocarsi al 2,8% del Pil nel 2013, mentre l’avanzo primario al 2,2%, in leggera flessione rispetto al 2012. La riduzione della pressione fiscale, dal 44 al 43,8% del Pil per il 2013, deve essere correttamente interpretata.

Più che una riduzione delle tasse, le minori entrate sono attribuibili alla riduzione del reddito da lavoro dipendente e del Pil. Se il reddito diminuisce, per quanto si possono aumentare le imposte, le entrate non possono crescere. Il quadro macroeconomico generale è leggermente migliore delle previsioni fatte dalla Commissione Ue, ma sicuramente più vicine alla realtà di quelle formulate a settembre dal governo Letta. Per rimanere alla crescita del Pil, la commissione europea prevede una crescita dello 0,6% per il 2014, mentre il governo Renzi la colloca allo 0,8%; il rapporto indebitamento/Pil è stimato al 2,5% contro il 2,6% della Commissione; il debito dovrebbe crescere ancora (133,7%) in ragione del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione verso i privati. Il governo prevede un aumento (proporzionale) dell’Iva legata alla retrocessione del debito. Queste entrate contribuiranno alla riduzione della pressione fiscale dei redditi da lavoro dipendente, i famosi 80 euro al mese. La parte del leone la farà la spending review. Complessivamente si tratta di un taglio della spesa pubblica senza precedenti: 34 mld di euro, di cui 20 già impegnati per coprire dei provvedimenti pregressi.

Per il 2014 sono previsti 7 mld destinati alla riduzione del cuneo fiscale, che diventano 5 solo perché la misura partirà da maggio. Con una avvertenza: la misura necessita di non meno di 32 mld per allineare il cuneo fiscale alla media europea (Cottarelli).

Con ogni probabilità saranno finanziate alcune opere piuttosto di altre. Si tratta di 5-6 mld di euro. Non pensate alla programmazione-governo della spesa pubblica. Più semplicemente saranno finanziate le opere che diversamente incorrerebbero in una qualche penale. Il governo della spesa pubblica da lustri non è praticata. Se lo fosse, il governo modulerebbe le entrate e le uscite in modo da ottenere il miglior impatto in termini di crescita economica e aumento del lavoro.

Da più parti è stata sollecitata la possibilità di utilizzare la flessibilità dell’indebitamento, tra il 2,5 e il 2,8% (4-5 mld) e la riduzione del servizio del debito, altri 5-6 mld, per finanziare alcune determinate poste. Scelta legittima, ma scartata dal primo ministro. Il rigore è pur sempre la stella polare del governo Renzi, assieme alle sue politiche dal lato dell’offerta.

Questo è il quadro generale. Per interpretare correttamente il Def occorre mettere a fuoco alcuni punti. La crescita del Pil dell’Italia è da lustri molto più bassa della media europea, nonostante le ore lavorate per lavoratore siano altissime. Solo per fare un esempio in Italia si lavora quasi 1800 ore, contro le 1400 della Germania. Per non parlare dell’indice di tutela del lavoro, ormai agli ultimi posti.

Rispetto al Jobs Act e all’insistenza sul rafforzamento del lavoro a tempo determinato, non capisco quale sia il punto d’arrivo. Il tasso di variazione del lavoro temporaneo dell’Italia, tra il 1990 e il 2012, è del 164%, contro una media europea del 34,5%. L’Irlanda, la tanto decantata Irlanda, ha registrato un tasso di crescita del 19,7%. Ministro Poletti, conosce queste statistiche?

Il punto che il Def dovrebbe trattare è quello di aumentare la produttività degli investimenti delle imprese italiane. Un tema delicatissimo, ma inevitabile se si vuole creare lavoro. Diversamente gli investimenti delle imprese corrono il serio rischio di diventare un vincolo (estero) per il Paese.