Il Festival è finito, per i bilanci si attendono i premi intanto sulla Croisette i festivalieri, più pallidi che mai nella luce tagliente di un grigio quasi pioggia hanno lasciato il posto ai «locali», i turisti dell’ultimo week end che arrivano dai dintorni, lusso esibito, voglia di star, tacchi 12, qualche botox di troppo. Chiuso il mercato è come se l’edizione 2019 fosse già archiviata, Palme a parte, eppure il finale ha proposto punte alte, a cominciare da Il traditore di Marco Bellocchio, lungamente applaudito alla proiezione ufficiale, e accolto ieri sui giornali francesi con ottime recensioni. O l’Intermezzo di Kechiche su Mektoub My Love mostrato ancora in progress – ma finirà mai o una volta «sistemato» sarà come l’altro un film diverso? – colpo di fulmine per molti cinefili che avevano amato il Mektoub in concorso due anni fa alla Mostra di Venezia e non sono rimasti delusi da questo «sequel» di fine estate, con la malinconia che irrompe nella bolla delle vacanze, la stessa in fondo di un «fine Cannes» – ne riparleremo. Ieri è arrivato It Must Be Heaven, ritorno di Elia Suleiman, uno dei registi prediletti dai grandi festival internazionali, premiato a Venezia nel ’96 – Cronaca di una scomparsa – e a Cannes – Intervention Divine (premio della giuria, 2002) dove è stato in gara anche con Il tempo che ci rimane e ha partecipato al film collettivo per i sessant’anni del Festival – Chacun son cinéma – tornando ancora una volta nel 2012 (Certain regard) con un episodio in 7 Days in Havana.

DA ALLORA più nulla, un silenzio che era un’assenza importante perché Suleiman dai suoi esordi con dei cortometraggi all’inizio degli anni Novanta è uno di quegli autori che nei suoi paesaggi politici e emozionali lavorano sull’immaginario in profondità. Palestinese di Nazareth, vissuto a New York e a Parigi Suleiman è un narratore eccentrico di quella terra che non ha diritto a esistere sulle carte geografiche cancellata dall’occupazione israeliana. Anzi la Palestina è il punto di partenza e il riferimento di tutti i suoi film senza mai però cadere nella «trappola» – spesso tesa agli artisti che provengono da realtà «difficili» – dell’iconografia del conflitto, forse perché al centro c’è sempre lui, o meglio il suo personaggio, ES, figura lunare (quando è apparso è stato subito paragonato a Buster Keaton) che osserva quanto gli accade intorno, espone i suoi sentimenti e nelle silenziose inquadrature frontali, che tornano al cinema muto, li trasforma in frammenti di realtà.

NON CI SONO manicheismi, «buoni» e «cattivi» nei suoi film, Suleiman preferisce l’umorismo col quale si avventura tra le contraddizioni opponendo una prima persona irriverente all’immagine della vittima riservata al suo Paese – It Must Be Heaven comincia a Nazareth, la città dove è nato, vi ritroviamo il suo doppio, ES, elegante col suo cappello di paglia che silenzioso, dietro a un bicchiere di arak osserva quanto gli accade intorno. Le sue giornate sono scandite da piccoli riti, innaffiare la pianta, il bar, gli incontri col vicino che ha sempre strane storie da narrare, fuori dal giardino di casa dove fioriscono i limoni le persone gli appaiono assurde, una miscela di aggressività, indifferenza, prevaricazione. L’aria è pesante, piena di minacce e di violenza, ma se la Palestina è un inferno da qualche parte ci sarà pure il paradiso?

COSI’ ES vola a Parigi – sopraffatto dall’ansia dell’aereo. Dal tavolino del caffé il mondo si rivela una epifania fantastica, una sfilata di ragazze bellissime e eleganti, sogno proibito – e nemmeno troppo – di ogni macho. Ma al mattino quel panorama che ci è familiare appare all’improvviso estraneo: nelle strade deserte camminano solo i poliziotti, qualcuno fugge, l’ossessione per la sicurezza domina (come qui a Cannes), la fila alle mense dei poveri si ingrossa, un homeless geme su suo materasso sporco, forse non basta il vassoio della colazione a aiutarlo. ES continua il suo viaggio – che poi è quello compiuto nella sua vita dal regista – destinazione New York. Pensava finalmente di sentirsi a casa e invece anche lì, tra i grattacieli dell’America trumpiana riaffiora il sentimento della Palestina da cui fugge. E se il paradiso fosse invece il suo giardino profumato di limoni?
La Palestina come microcosmo del mondo degli altri film diviene qui il mondo come microcosmo della Palestina in uno spostamento di prospettiva che rende il film una lente precisissima con cui restituire il contemporaneo, tensione che attraversa quasi l’intera selezione del concorso – e non solo.

IL PUNTO però è: come riuscirvi? In che modo mettere in gioco il gesto di filmare rispetto a quelle che sono le domande poste dal nostro tempo? Suleiman lascia fuori campo le generalizzazioni, i discorsi «tematici» o l’attualità dei media per mettere a fuoco i dettagli da uomo e da artista libero. . È il suo sguardo che costruisce il sentimento del presente,quella dimensione globale di ordine, telecamere di sorveglianza, checkpoint, polizia, miseria nella quale occidente e oriente, nord e sud appaiono lo stesso punto, laboratori di fascismo quotidiano.

LA REGIA ne elimina gli involucri, mira all’essenza, mischia con umorismo – si ride molto guardando questo film – autofinzione e burlesque, cambia le prospettive, malinconia e spiragli di speranza.. Non c’è bisogno di parole, sono le immagini che raccontano, è la la poesia silenziosa di un pensiero che alle certezze predilige la ricerca, la meraviglia di un cinema mai rivolto a sé stesso.