Quando la leggerezza ha il sapore della libertà. Accade in Palestina, dove ogni semplice gesto quotidiano, apparentemente comune, assume un valore più alto, come quello di ritagliarsi una fetta di normalità in un territorio difficile, duro, conteso. È su questo aspetto che ha puntato il suo obiettivo la fotografa Tanya Habjouqa, nata in Giordania da padre di origini caucasiche e madre texana, vissuta fra la Giordania e gli Stati uniti finché nel 2009 si è trasferita a Gerusalemme est dopo aver sposato un uomo palestinese.

Una formazione da antropologa e un master in global media e politica in Medio Oriente, i suoi scatti ironici, quasi divertiti, colgono i piccoli piaceri che i palestinesi riescono a conquistarsi ogni giorno. Ciò che per noi è banale lì ha quasi un significato di rivalsa e sfida, rappresenta una forma di resistenza pacifica e silenziosa.

Il progetto, dal titolo Occupied Pleasures, ha vinto il World Press Photo 2014 nella categoria Daily Life e ricevuto il Magnum Foundation 2013 Emergency Fund. Scorrendo le fotografie dai colori accesi, per la prima volta in mostra in Italia all’ARIA art gallery di Firenze e ora allestita nell’ambito della rassegna FotoLeggendo presso l’Istituto superiore Antincendi di Roma (fino a fine giugno), vediamo in primo piano alcune studentesse nel campus universitario lambito dal muro di separazione israeliano che si esercitano con la lancia. Il gesto rimanda immediatamente alle pietre scagliate dai giovani contro i militari israeliani durante l’Intifada. La cittadella universitaria, vicina a Gerusalemme est, soffre di continue incursioni dell’esercito ed è molto politicizzato.

Occupied Pleasures by Tanya Habjouqa 7

Fra i più belli e affollati, la sola area all’aperto è il campo sportivo che corre lungo il muro. «Queste donne sembravano lottatrici, antiche amazzoni greche» dice la Habjouqa che descrive con grande energia il suo lavoro «mi è piaciuto rimpiazzare l’immagine stereotipata della resistenza dei ragazzi che lanciano le pietre, il gesto è lo stesso. I media propongono spesso immagini standard senza inserirle nel contesto e spiegare le ragioni della loro resistenza. Ho voluto uscire da quello schema per stimolare una riflessione, giocare con alcuni stereotipi per proporli in maniera diversa».

Nel campo di Kahn Younis, fra le zone più povere di Gaza, le acrobazie dei ragazzini della squadra di parkour. Hanno sedici anni e nessun mezzo per promuoversi, fanno pratica in un’area controllata.
Fra le storie preferite della Habjouqa il tentativo di ridare vita allo zoo di Gaza nonostante le restrizioni «si usano i tunnel anche per trasportare cuccioli di alligatori, tutto passa attraverso i sotterranei».

Uno degli scatti più seri è il ritratto di una famiglia sfrattata «ho sentito una responsabilità politica, non volevo si pensasse che stavo banalizzando l’occupazione lanciando il messaggio che va tutto bene. Ho voluto occuparmi di questioni cruciali come quella dei prigionieri palestinesi (ogni famiglia ha un membro in carcere) e delle demolizioni. Alle spalle c’è una delle aree in cui gli israeliani stanno occupando più terreno. Ho ritratto un operaio con le sue cinque bambine e i resti della casa, gli oggetti ammucchiati. Ora vivono in una piccola stalla destinata all’asino e agli altri animali. Non ha altre possibilità. Dopo la demolizione ha piantato la bandiera palestinese per affermare che non lascerà quel posto».

È l’unica fotografia priva di umorismo. «Volevo includere nei miei scatti anche Gerusalemme est, l’area più politicizzata, dove è molto difficile lavorare. Lì regna uno stato di paranoia, non si accettano domande e fotografie. Vicino al check point ci sono gli insediamenti dall’altra parte c’è Beit Hanina, lì alcuni artigiani di mobili aspettano i clienti seduti sulle loro poltrone fumando narghilè e bevendo caffè, sullo sfondo hanno il muro. Vendono anche ai coloni vicini perché i prodotti sono meno costosi.

Durante l’ultima coppa del mondo a Betlemme il muro è stato usato come parete su cui proiettare le partite, un modo creativo di convivere con una barriera di separazione».
Un’immagine forse più di altre l’ha ispirata: alcune donne che praticano yoga all’aperto sulla collina di un villaggio vicino a Betlemme. «A Ramallah un centro di yoga è uscito dalle palestre per andare nei campi profughi e nei villaggi. Ora a praticarlo sono anche donne modeste di villaggi lontani dalla città. Le ho ritratte in una posizione che ricorda la preghiera, mi hanno confessato di provare la stessa emozione. Il corso è molto affollato, spesso si esercitano all’aperto, vicino alle rovine romane e ai coloni. Vogliono continuare, è la loro forma di resistenza interiore».

La difficile realtà di Gaza trova un piccolo spiraglio di speranza nel mare, una madre e le sue due figlie lo osservano dalla spiaggia. «È l’unica cosa che si possono permettere, non potendo uscire. Spesso gli studenti fanno gite in barca esaltati dalla sola idea di navigare per un breve tratto. È il loro solo modo di uscire da Gaza, la loro via di fuga». E proprio a Gaza la Habjouqa ha ritratto l’unica ragazzina surfista, ha 14 anni e sa che presto per lei sarà ’inappropriato’ continuare.

«Da freelance nel 2009, quando ho lavorato alla serie sulle donne di Gaza, dopo l’orribile operazione piombo fuso» spiega la fotografa «non potevo accedere a Gaza, sono riuscita grazie al supporto di una Ong. In quel periodo i media raccontavano tutti le stesse storie sui diritti delle donne sotto il controllo di Hamas. Avevo una grande responsabilità a lavorare con una popolazione traumatizzata dalla violenza. Ho scelto di raccontare un altro aspetto. Ho incontrato una donna che attraverso i tunnel è andata incontro a quello che poi è diventato suo marito, si sono innamorati su skype, i social media sono un’altra scappatoia. Il mare e internet sono le uniche evasioni. Il loro incontro è avvenuto nei tunnel, lei indossava l’abito da sposa. Il marito mi ha confessato che nonostante l’occupazione troveranno sempre il modo di vivere. Questa storia è stata alla base del mio progetto. Nel 2013 documentando la Palestina non si poteva fare a meno di occuparsi dei prigionieri, delle demolizioni e dell’economia attraverso i tunnel di Gaza. Ora i tunnel sono diventati una realtà istituzionale, nel 2009 ci si scendeva con molte difficoltà, ora s’incontrano donne con bouquet di fiori che salutano e dicono di andare in Egitto come se fosse la cosa più naturale. Nei miei scatti ho voluto mostrare anche la bellezza dei paesaggi palestinesi» continua la Habjouqa «molti parchi naturali sono controllati dagli israeliani, i palestinesi possono accedervi, ma ci sono ingressi e uscite diverse e molte tensioni con i coloni vicini».

Fra le immagini anche Banana Land, un parco di divertimenti a Gerico meta di molti rifugiati che vivono nei campi, unica opportunità per vedere una realtà tropicale. Oppure la teleferica che sale fino alla montagna delle tentazioni citata nella Bibbia, rara infrastruttura turistica palestinese e meta molto popolare.

Fra i volti ritratti anche quello di una giovane donna laureata, fidanzata a un uomo che vive in Libia, «felice» (sic!) perché finalmente lascerà il paese. «Solo pochi anni fa nella società palestinese le ragazze non si sposavano troppo giovani, ora per mancanza di opportunità si tende a trovare un uomo per fuggire dalla realtà».

Sorprende un progetto che mostra i piaceri di un popolo oppresso, «c’è la convinzione che si debba parlare solo di resistenza, sofferenza, battaglie, ma ritagliarsi dei piaceri quotidiani è già una forma di resistenza. Ho cercato storie diverse per spiegare l’occupazione, spesso si rischia di essere attaccati per questo. Quando ho avuto il primo figlio questa è diventata immediatamente la mia storia, ora ho il permesso di narrarla, mi appartiene. Ho sempre presente la mia etica di giornalista e documentarista, ma sento che sono in grado di andare un passo più in là nel raccontare. Come mi spiegava un’amica non si può solo vivere sulle prime pagine dei giornali raccontando gli attacchi e le guerre a Gaza perché anche quando le famiglie rischiano la demolizione delle case devono sforzarsi di rendere la vita tollerabile per i loro figli, devono semplicemente vivere!».