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«Quel viaggio aereo di più di venti anni fa si rivelò un’esperienza unica. Al terminal incontrai impiegati e funzionari palestinesi che sprizzavano gioia, la gioia di poter fare quel tipo di lavoro per la loro gente, nel loro aeroporto». Stefano Baldini con ogni probabilità è stato l’unico italiano a volare con la Palestinian Airlines, la compagnia di bandiera palestinese. Agronomo, cooperante, Baldini ha speso la vita a realizzare per conto di varie Ong italiane progetti di sviluppo in Medio oriente e Africa. E tra la fine degli anni ’80, durante la prima Intifada, e gli anni ’90, ha vissuto e lavorato in Cisgiordania e a Gaza passando più tempo con agricoltori e allevatori palestinesi che con la sua famiglia in Italia. «Volare con la Palestinian Airlines era un desiderio troppo forte» ci racconta da Beirut, la sua nuova sede di lavoro «appena ebbi l’occasione giusta prenotai un volo per il Cairo. Ricordo che all’aeroporto di Rafah c’era anche la sicurezza israeliana, con un atteggiamento ben diverso da quello del personale palestinese. Una camionetta (israeliana) seguì il nostro bus fino alla scaletta dell’aereo». A bordo, prosegue Baldini, fu una festa. «Regnava l’entusiasmo, i miei compagni di viaggio ed io fummo accolti con calore, steward e hostess sul volto avevano dipinta la consapevolezza di contribuire a costruire qualcosa di nuovo per la loro terra. Altrettanto gioioso fu il benvenuto del comandante. Il volo era breve, meno di un’ora, eppure ci offrirono di tutto. A un certo punto apparve un carrello con una torta intera. Noi passeggeri eravamo in estasi, si usciva da Gaza salendo su verso il cielo. Penso di essere stato uno dei pochi stranieri a vedere Gaza dall’alto su un aereo della Palestinian Airlines». L’emozione irrompe nella voce di Baldini. «Quel viaggio è un ricordo indelebile, perché c’erano la speranza di costruire la Palestina e l’idea che Gaza potesse diventare un luogo normale, come merita ed è assurdo che non lo sia».

Quante speranze svanite, quanti sogni irrealizzati e promesse tradite nel racconto dell’agronomo italiano. E l’annuncio dato dall’Autorità nazionale palestinese che la Palestinian Airlines sarà liquidata e che i suoi due Fokker 50 (SU-YAH e SU-YAI), ormai vecchi di trent’anni, sono stati messi in vendita, aggiunge amarezza e disillusione nell’animo dei tanti, non solo palestinesi, che avevano creduto agli Accordi di Oslo firmati nel 1993, all’idea che Israele avrebbe messo fine all’occupazione militare per far nascere lo Stato di Palestina. È andato tutto storto. Gaza è una prigione e le aree autonome palestinesi in Cisgiordania assomigliano a bantustan. I leader arabi corrono a firmare intese con Israele e fanno spallucce ai palestinesi che chiedono la libertà. Per la Palestinian Airlines non c’era alternativa alla chiusura, era indebitata e di fatto non operava da anni. La scorsa estate è stato risolto con la Niger Airlines un contratto di leasing per entrambi gli aeromobili, rendendo persino più precaria la situazione finanziaria della compagnia. I dipendenti sono stati mandati a casa negli anni passati, qualcuno si è fermato a Gaza altri hanno cercato lavoro nello stesso settore nei paesi arabi.

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Nata nel 1995, la Palestine Airlines cominciò a operare nel giugno 1997 con voli per i pellegrini musulmani diretti in Arabia saudita. Prima dall’aeroporto di El Arish (Egitto) e poi, dal 1998, da quello internazionale palestinese «Yasser Arafat» ultimato nei pressi di Rafah, a Gaza. Ai due Fokker fu aggiunto un Boeing 727 donato dal principe saudita Al Walid bin Talal Al Saud. Poi è stata solo una lunga agonia, cominciata venti anni fa, all’inizio del 2001, quando nei primi mesi della seconda Intifada innescata dal fallimento degli Accordi di Oslo, gli F-16 israeliani bombardarono la torre di controllo e la pista dell’aeroporto di Gaza rendendolo inutilizzabile. Una fine che nessuno avrebbe immaginato quel 14 dicembre 1998, quando lo scalo palestinese vide l’arrivo dell’elicottero Marine One con a bordo Bill e Hillary Clinton. In rete girano ancora le immagini del presidente Usa e della First lady nella sala Vip del terminal assieme a Yasser Arafat con il suo immancabile copricapo, la kufiah. Oggi l’aeroporto di Rafah – costruito con fondi di Giappone, Egitto, Arabia Saudita, Spagna e Germania e progettato da architetti marocchini – è solo una distesa di macerie e scheletri di edifici. La pista larga 60 metri è disseminata di rifiuti portati da carretti trainati da asini provenienti dai vicini campi profughi. Un luogo triste e abbandonato che di tanto in tanto ospita corse di cavallo improvvisate.

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Mounib Al Mashharawi, 61 anni, sugli aerei della Palestinian Airlines è salito tante volte. Non da passeggero come Stefano Baldini. Sui due Fokker svolgeva il compito di pilota navigatore grazie alla laurea conseguita negli anni ’80 all’Istituto superiore di aviazione dell’Egitto. «Il presidente Arafat teneva in grande considerazione l’aviazione» ci racconta Al Mashharawi «la Palestinian Airlines non esisteva ancora ma ci diceva di studiare e prepararci perché un giorno avremo avuto il nostro Stato e la compagnia di bandiera sarebbe stato il fiore all’occhiello della Palestina». Decine di palestinesi si sono formati in questo settore in vari paesi. «Alcuni in Polonia – prosegue Al Mashharawi – altri in Occidente. Io dopo la laurea ho continuato a studiare in Giordania dove ho conseguito la qualifica di ingegnere di bordo sui Boeing 727». Mashhrawi vive a Gaza, con una pensione modesta che a stento gli permette di sopravvivere. Quei tempi, quel salire veloce da Gaza verso le nuvole, gli appaiono lontani e non solo per il trascorrere inesorabile del tempo. Sente dentro l’amarezza comune a tanti palestinesi della sua generazione per l’inganno degli accordi di Oslo, destinati sulla carta a creare in cinque anni, dal 1994 al 1999, lo Stato di Palestina e che sono diventati la palude infinita in cui annaspano ancora oggi. «Dovevano liberarci dal controllo totale di Israele su tutto ciò che facciamo e su chi e cosa entra ed esce dalla Palestina. Non abbiamo ottenuto nulla e siamo sempre più soli», dice laconico salutandoci.