La Paleoarte di Élisabeth Daynès
Cristalli liquidi Rispetto ai suoi precedessori combina l’esattezza scientifica con un aspetto più umano degli ominidi, evitando il doppio cliché del buon selvaggio e della bestia cannibale e pelosa
Cristalli liquidi Rispetto ai suoi precedessori combina l’esattezza scientifica con un aspetto più umano degli ominidi, evitando il doppio cliché del buon selvaggio e della bestia cannibale e pelosa
La paleoarte dà vita a mondi scomparsi, quelli degli umani e degli animali della preistoria, a partire da frammenti polverosi e da vestigia riesumati dalla terra. Poco importa che il medium scelto sia la pittura, la scultura, l’immagine in movimento o il diorama, la paleoarte ha la capacità di trasformare un fossile in una rappresentazione, un teschio in un volto. È una delle espressioni artistiche che richiede il più alto grado d’immaginazione. Per citare la paleontologa e storica della scienza Claudine Cohen, «come i primi viaggi immaginari hanno preceduto le prime scoperte geografiche, così una preistoria immaginaria ha preceduto l’emergere della preistoria erudita». Insomma, prima di essere scoperto, l’uomo preistorico è stato inventato.
Non conosco tuttavia manifestazione artistica più ambivalente. Da una parte le illustrazioni della paleoarte sono il risultato di un dialogo incessante con un plesso scientifico molto ampio: paleontologia, preistoria, archeologia, sedimentologia, archeozoologia, geologia, anatomia, etnologia, biologia speculativa, antropologia medico-legale. Dall’altra si rivolge a un pubblico non specializzato, tendenzialmente più ampio di quello dell’arte contemporanea, che spazia dai musei della scienza ai parchi tematici, dai libri di divulgazione scientifica alla letteratura d’infanzia. Da una parte riscuote alti consensi nelle sue forme più spettacolari (penso alle sculture dei sempre idolatrati dinosauri), dall’altra i suoi artefici restano nell’ombra (sfido uno storico dell’arte a fare i nomi di un paleoartista). Da una parte dà corpo a ipotesi scientifiche, al di là delle tediose vetrine di ossa accompagnate da didascalie incomprensibili che ritroviamo nei più arcigni musei della preistoria, dall’altra è vittima di frequenti critiche da parte degli specialisti che lamentano un’eccessiva semplificazione o una caduta nel folklore locale (il caso del cinema è sintomatico).
Realista per vocazione, la paleoarte – da iscrivere nella storia secolare dell’illustrazione naturalista – vive nell’impossibilità di misurare il suo grado di realismo, rappresentando un mondo sconosciuto malgrado le scoperte. Le sue ricostituzioni, per quanto dettagliate, sono e resteranno congetturali. Da cui il paradosso maggiore della paleoarte: quello di voler dare immagine – e vita – a qualcosa di estinto su cui la conoscenza sarà sempre lacunare.
Trascorsa la generazione di artisti quali il praghese Zdenek Burian e l’americano Maurice Wilson, alcune figure più giovani mantengono viva e assieme rinnovano questa tradizione artistica. Penso alla scultrice francese Elisabeth Daynès, che arriva alla preistoria alla fine degli anni ottanta dopo un trascorso nel mondo degli effetti speciali. Rispetto ai suoi precedessori combina l’esattezza scientifica con un aspetto più umano degli ominidi. In questo modo riesce a non cadere nel doppio cliché del buon selvaggio e della bestia cannibale e pelosa. Influenzata dalla scultura iperrealista, Daynès modella le masse muscolari in argilla direttamente sul calco del cranio, consapevole che più si allontana dall’osso più interviene l’interpretazione, come nel caso del naso, di cui non ci è rimasta la cartilagine che lo compone. Una volta ottenuto l’assenso degli scienziati con cui collabora, ricopre il volto di una pasta di silicone per prendere l’impronta, in cui sarà in seguito colata una materia in resina e fibra di vetro del colore della pelle. Il volto è modellato ma manca ancora qualche dettaglio: denti, unghie, peli, capelli, rughe d’espressione e soprattutto le protesi oculari in vetro. La materia sembra prendere vita: il volto è dotato di un’espressione e di un’identità. È uno sguardo che ci guarda, quello dei nostri antenati.
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