Nato a Buffalo nel 1983, come ogni teen-ager afroamericano della sua generazione nell’adolescenza James Brandon Lewis ha profondamente interiorizzato la musica e la cultura hip hop (una “educazione sentimentale” che Lewis ha poi rimeditato con l’album del 2015 Days of FreeMan). A partire dal suo trasferimento a New York nel 2012 James Brandon Lewis si è affermato non solo come uno dei più brillanti nuovi sax tenori, ma come una delle figure di punta del jazz afroamericano, con una personalità e una concezione che mescolando diversi elementi jazzistici ed extrajazzistici sono emblematiche di una nuova generazione nera, esposta a molte esperienze e in grado di farle reagire fra loro in maniera consapevole producendo nuove sintesi. Sul piano della sua formazione più squisitamente jazzistica, Lewis da un lato può vantare una padronanza del jazz che è solidamente ancorata al mainstream, che negli anni dell’università ha suonato con musicisti della statura di un grande vecchio come Benny Golson o del compianto Wallace Roney; dall’altro negli anni Duemila ha studiato con esponenti del jazz più avanzato come Wadada Leo Smith o Matthew Shipp, e una volta a New York ha collaborato con il contrabbassista William Parker, catalizzatore della scena dell’avanguardia nera della Grande Mela.

NEGLI ULTIMI ANNI abbiamo avuto numerose occasioni di ascoltare James Brandon Lewis: col gruppo di William Parker, con Heroes Are Gang Leaders, col suo quartetto col chitarrista Anthony Pirog, il bassista Luke Stewart e il batterista Warren Crudup III, col suo travolgente gruppo An Unruly Manifesto – con la stessa ritmica e la trombettista Jaimie Branch e la chitarrista Ava Mendoza – e, proprio a Sant’Anna Arresi, nel 2018, in quartetto con un veterano del sax tenore, David Murray, e in duo con il batterista Chad Taylor (e quest’estate Brandon Lewis è stato in Italia assieme al pianista Giovanni Guidi con un progetto dedicato a Gato Barbieri). Eppure, al suo ritorno a “Ai confini tra Sardegna e Jazz”, James Brandon Lewis non ha mancato di mostrare dei lati non scontati della sua poetica e della sua sensibilità. Il sassofonista avrebbe dovuto essere di scena con Thomas Sayer Ellis, con cui condivide l’esperienza di Heroes Are Gang Leaders (un gruppo nato per rendere omaggio al grande poeta e intellettuale afroamericano Amiri Baraka), e con il pianista Alexis Marcelo, in una esibizione consacrata a Jean-Michel Basquiat. Ma Ellis ha dovuto dare forfait. Riorganizzato in quartetto, con Silvia Bolognesi al contrabbasso e il percussionista senegalese e bergamasco di adozione Dudu Kouaté (entrambi negli ultimi anni hanno lavorato con l’Art Ensemble of Chicago), il set non ha avuto affatto il carattere del ripiego. Anche con alcune citazioni lette da lui stesso che hanno intercalato la musica, Brandon Lewis ha condotto gli ascoltatori in un percorso fra alcuni suoi riferimenti e numi tutelari: da Amina, un brano dedicato ad Amina Baraka, per ricordare che non è stata semplicemente la moglie di Amiri Baraka, a The Three Faces of Balal del grande Yusef Lateef (di con cui Alexis Marcelo è stato allievo all’università), da Broken Shadows di Ornette Coleman a The Prayer di Willliam Parker, a Womb Water, tema di Cecil Taylor, fino al bis con Over The Rainbow. Robusta, vigorosa, anche veemente, l’espressione di Brandon Lewis è figlia (nipote, si può ormai dire) degli anni sessanta: con momenti spigolosi, punte parossistiche, è apparsa però sempre dominata da una sorta di controllo di fondo, e anche di eleganza e di senso della forma, senza partire per la tangente; e colpiva la combinazione dei passaggi più accesi con una ricorrente inclinazione alla melodia, e addirittura un’enfasi sulla melodia (anche nel brano di Taylor!). In questo senso Brandon Lewis appare un musicista non solo con un’estetica sfaccettata, ma forse ancora, produttivamente, in evoluzione e alla ricerca di se stesso.

AD AI CONFINI TRA SARDEGNA E JAZZ è tornato anche Davis Murray, una garanzia, in quartetto con Brad Jones al contrabbasso e con Hamid Drake alla batteria, e con guest Aruan Ortiz, pianista cubano da seguire con attenzione. Murray ha ricordato la sua amicizia con Basilio Sulis, carismatico animatore del festival dalla nascita alla metà degli anni ottanta, che ha poi portato avanti difendendone strenuamente il carattere non omologato: e Murray ha ricordato anche l’amicizia ancora più stretta che ha legato Sulis e un grande e compianto amico di Murray, Butch Morris, e che si è tradotta nella realizzazione al festival di memorabili “conduction” di Morris. Questa trentaseiesima edizione è stata anche una forma di elaborazione del lutto. Non abbiamo potuto seguire interamente il programma, ma tra i concerti a cui abbiamo assistito da segnalare almeno l’esibizione della Elephantine Band del chitarrista Maurice Louca, esponente della scena innovativa egiziana, con un jazz orchestrale arioso, con venature zappiane e belle atmosfere disegnate dalla chitarra e dal vibrafono di Pasquale Mirra, e quella di Sound Glance, con un free piacevolmente affabile e anche ludico, un quartetto in cui con Marco Colonna ai clarinetti, Fabrizio Puglisi al pianoforte, Silvia Bolognesi al contrabbasso, si è avuto il piacere di rivedere dopo tanto tempo il batterista tedesco Gunter Baby Sommer, storico caposcuola e vecchia volpe dell’improvvisazione radicale europea.