Un anno dopo la strage dei giorni tra il 18 e il 21 febbraio 2013, entrati tragicamente nelle cronache come Euromajdan, non sono ancora del tutto chiari né il ruolo, né l’appartenenza dei cecchini che fecero fuoco sia sui dimostranti che protestavano contro il governo di Janukovic, sia sulle forze dell’ordine.

Ieri, a Kiev, si è ricordata la data simbolo, il 20 febbraio, il «giovedì di sangue»; il presidente Petro Poroshenko ha inaugurato il monumento a ricordo degli oltre cento morti e più di 600 feriti della carneficina di quella sola giornata e le decine di morti dei giorni precedenti. Si è ricordata la data e lo si è fatto seguendo il filone che in Ucraina fu avviato proprio in quelle settimane e che portò al colpo di stato contro il presidente Janukovic e che poi, poco più di un mese dopo, vide il presidente ad interim Aleksandr Turcinov scatenare la guerra contro le popolazioni del Donbass.

Popolazioni che, se avevano preso parte alla protesta contro la corruzione governativa, non erano però intenzionate a sottostare alla svolta reazionaria avviata a Majdan. Si sono ricordate quelle tragiche giornate sventolando le insegne nazionaliste e neonaziste proprio di quella parte di dimostranti che, armi alla mano – come ha testimoniato anche la Bbc – e insieme ai cecchini, spararono sia contro i civili, sia contro i poliziotti che, per malaugurati ordini, rimasero inattivi mentre piovevano proiettili e bottiglie incendiarie.

Si è ricordata ieri Majdan, con la sfilata per le strade di Kiev dei rappresentanti di quei battaglioni che, dopo Majdan, sarebbero diventati purtroppo tristemente famosi per le stragi di civili, di cui si sono rinvenute numerose fosse comuni a settembre e ottobre scorsi, nei villaggi prima occupati dai «volontari» neonazisti e poi liberati dalle milizie della Novorossija.

Si è ricordata Majdan alla maniera della guardia nazionale ucraina che nel Donbass costringeva vecchi e bambini, in ginocchio sulla neve, a cantare gli inni nazionalisti; alla maniera delle truppe che, narcotizzate dallo scampato pericolo del completo annientamento nella sacca di Debaltsevo, si sono abbandonati a scene da truppe di occupazione appena raggiunta Artëmovsk, sotto controllo di Kiev.

Ha ricordato Majdan Petro Poroshenko, che sempre ieri ha reso effettiva la decisione adottata lo scorso 25 gennaio dal Consiglio di sicurezza nazionale contro la «minaccia russa» e ha chiesto alla Procura generale di considerare «organizzazioni terroristiche» quelle Repubbliche di Donetsk e Lugansk con cui nemmeno una settimana fa sembrava voler concludere la pace.

Non solo: il governo è incaricato di avviare le procedure per portare al Tribunale de L’Aja i «delitti contro l’umanità, compiuti dai nemici armati del potere di Kiev negli anni 2014-2015». Ancora una volta dunque, i delitti contro l’umanità si addossano a chi, di tali crimini, è rimasto vittima.

Il Consiglio di sicurezza è stato anche incaricato di «attivare il lavoro informativo per neutralizzare la pericolosa influenza della Federazione russa e organizzare una informazione multilaterale e tempestiva sulle cose da fare di fronte alla minaccia di un attacco terroristico». Cioè, quello che si dice, l’attuazione di un vero e proprio «piano di convivenza pacifica».

E mentre a Kiev si ricordava Majdan, il leader deIla Repubblica di Lugansk Igor Plotnitskij, che nei giorni scorsi aveva ammesso la possibilità della permanenza della regione di Lugansk nella struttura nazionale ucraina, se verranno rispettate le condizioni di autonomia concordate, ieri ha disposto l’arretramento delle artiglierie secondo quanto stabilito dal «gruppo normanno» e la Repubblica di Donetsk ha invitato gli osservatori Osce a controllare la linea di separazione tra le forze governative e le milizie.

Nel complesso, insomma, sette giorni dopo gli accordi di Minsk, nessuno stupore se i sondaggi del Centro russo di ricerche sociali riferiscono che il 69% dei russi ritiene oggi reale una minaccia militare esterna, contro il 52% di un anno fa e il 49% del 2000.