Le guerre più recenti e più vicine hanno tutte i colori di alcune opere di Anselm Kiefer: il nero lasciato dal fuoco, il grigio del cemento fatto a brandelli, il bruno del metallo contorto delle lamiere, dei tondini di ferro divelti e arrugginiti, del fango. Talvolta il tono più acceso di un vestito emerge dal cinereo di un cumulo, o da una casa sventrata: è una vita che fu. La pace, invece, chissà perché, ce la si immagina bianca. Pulita. Come una colomba. Senza chiasso, come una nuvola che attraversa un cielo sereno «così bello, quand’è bello, così in pace», in un silenzio delicato, in una resa. Tra l’una e l’altra immagine c’è un abisso, non solo cromatico, e dei fili che legano individuo e collettività, che danno la misura morale delle scelte nel senso generale della Storia e aiutano a stimare i divari. Chi ci crede, chi no; chi è dalla parte del torto e chi da quella della ragione; chi sta di qua o di là da un confine. Alcuni di questi fili, poi, allacciano passato e presente in una Storia che si ripete sempre diversa ma ancora una volta simile, travalicando persino i richiami all’attualità. Alcuni, arrivano fino a Kiev.
In Guerra e pace, Tolstòj dà al conte russo Nikolaj Petrovich Rumjancev (1754-1826) una parte minuscola, sullo sfondo. Era il ministro degli affari esteri dello zar, ma non si vergognava d’essere filofrancese, d’ammirare Napoleone e di parlare, come gran parte dell’aristocrazia, più francese che russo. Era quello che oggi si definirebbe un pacifista. Amava l’Europa; come conveniva alla formazione di uno del suo rango sociale – e prosciugando il patrimonio familiare – aveva fatto un lungo grand tour: era stato per mesi nelle più importanti città italiane. Tra tutte aveva preferito Roma. Una metropoli guardata con gli occhi di un giovane pervaso di cultura neoclassica, ammiratore di Mengs e Winckelmann. Per lui Roma era l’unica vera capitale moderna proprio perché legata indissolubilmente all’Antico. Perciò è nell’ordine naturale delle cose che nel 1811 Nikolaj Petrovich, arrivato a una posizione di assoluto prestigio nella gerarchia di comando dell’impero russo, commissionasse al «genio immortale» di Canova un’allegoria di marmo bianco per arricchire il salone principale del proprio palazzo affacciato sull’Angliyskaya Naberezhnaya di San Pietroburgo.
La statua doveva celebrare i servizi resi alla pace da tre generazioni di Rumjancev, e quindi i trattati che avevano posto fine a tre guerre (con Svezia, Turchia e ancora Svezia) cambiando la storia settecentesca della Russia. Sottoscritte dal nonno, dal padre e da lui stesso come Cancelliere dello zar, la memoria delle paci di Åbo, 1743, Küçük Kaynarca, 1774, e Hamina, 1809, doveva essere concretizzata dall’«immaginazione nobilissima» del più grande scultore neoclassico, e così pervasa dall’Antico da divenire un simulacro apotropaico per la propria casa e per il proprio Paese. Era il giusto coronamento della ricostruzione neoclassica del palazzo Rumjancev, con monumentali colonne corinzie in facciata e un Parnaso nel timpano.
Con la minaccia della Grande Armée sulla Russia il credito politico del filofrancese Rumjancev cominciò a sgretolarsi. Il conte restava saldo sulle sue posizioni, cercava un dialogo con Napoleone mentre l’imperatore ammassava le truppe e le voci sull’invasione imminente si trasformavano sempre più in previsioni di rovina. Bonaparte, nell’immaginario popolare russo, era diventato l’Anticristo. Nello stesso momento, da Roma, Canova scriveva al sodale Quatremère de Quincy: «La statua della Pace si farà: vengane la guerra; essa non potrà impedirla. Ma io temo che alla pace generale non si farà statua per ora. Così si potesse farla, come io l’alzerei a mie spese!».
Dopo giorni tesi, passati nell’angoscia nervosa di mancate risposte e infine di un dialogo definitivamente interrotto, nel giugno del 1812, alla notizia dell’inizio dell’invasione, Rumjancev è colpito da quello che allora si chiamava colpo apoplettico. Un ictus che segnava il collasso del conte e delle sue idee pacifiste, azzerando le remore dello zar Alessandro I, pronto allo scontro; ma «la statua della Pace si farà».
Canova terminava infatti il modello a settembre, probabilmente poco dopo la sanguinosa battaglia della Moscova, quando la campagna militare di Napoleone cominciò a subire le gravi perdite che portarono l’esercito francese a una lenta disfatta. Il marmo era finito nel maggio 1815, nel bel mezzo dei Cent-Jours conclusisi nel disastro Waterloo, e con il definitivo allontanamento di Bonaparte dalla scena europea. La Pace arrivò a San Pietroburgo nel novembre 1816, accolta non solo dal conte Rumjancev, ormai ritiratosi a vita privata tra libri, quadri e frequentazioni sceltissime, ma da un pubblico entusiasta inebriato dalla sconfitta del tiranno francese, da un sentimento d’orgoglio nazionale e da una pace che si pensava finalmente rinsaldata.
La figura alata scolpita da Canova è carica di valori simbolici. Richiama l’iconografia di Vittoria-Nemesi, dea del ristabilimento della giustizia, mentre la presenza del serpente si rifà a medaglie romane dove la bestia è simbolo della guerra. Le grandi ali, i panneggi che seguono il corpo e cascano verticali in pieghe minutissime, danno alla Pace una maestosità che oltrepassa i confini della poetica del bello ideale, per dare una forma plastica a un’idea fuori dal tempo. L’esegeta, sempre geniale, Quatremère de Quincy, si chiese se l’amico scultore sarebbe arrivato a un tale capolavoro di sintesi senza i rapidi rivolgimenti tra guerra e pace che caratterizzarono i tre anni di lavorazione. Se, insomma, la fragilità della pace non fosse stata messa tante volte alla prova, Canova avrebbe comunque realizzato un’icona di marmo tanto potente? L’artista di Possagno, che generalmente rifiutava i possibili agganci delle proprie opere a temi d’attualità politica, finiva per dare un aspetto scultoreo a un’idea di pace tanto consentanea al suo tempo quanto universale. E fa impressione che per quasi due secoli quest’opera si sia fondamentalmente dimenticata.
Dopo la morte del suo committente, la vasta biblioteca e le collezioni Rumjancev furono cedute allo Stato dando origine alla Biblioteca nazionale e al primo Museo pubblico russo. La Pace finì per essere trascurata. Nel 1953 fu così trasportata senza clamore al Museo Nazionale Khanenko di Kiev, nel primo anno in cui Krusciov, che aveva origini ucraine, divenne Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Su Canova era nel frattempo caduto l’epitaffio di Roberto Longhi: «lo scultore nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove». Non stupisce quindi che un tale campione di classica ed essenziale severità sia caduto nell’oblio, accantonato in piena Guerra fredda e dato per disperso dagli storici dell’arte. Solo con la riconsiderazione critica del Settecento neoclassico, da Hugh Honour in qua, e con gli studi più recenti, i fili si riallacciano e l’opera, nel 2003, riemerge dal buio che l’aveva eclissata per tutto il Novecento, tornando in Italia per due volte: l’ultima a Napoli, per Canova e l’Antico, al Museo Archeologico nel 2019.
Era esposta nel museo di Kiev fino a pochi giorni fa, mentre da questa parte d’Europa continuavamo a sperare, come il conte Rumjancev, nella diplomazia. Ora La Pace siglata da Canova nelle sfumature rarefatte del marmo bianco è di nuovo nascosta, protetta dalle bombe, umiliata dalla guerra, con il resto della collezione del Khanenko. Così la storia di quest’oggetto luminosissimo finisce ancora una volta per coincidere con il valore universale che esprime. Riposta, nell’attesa di un tempo migliore, che possa meritarla.