A quasi un mese dal golpe e dopo altre 41 vittime – bilancio aggiornato a ieri con la morte di un altro adolescente rimasto ferito negli scontri dei giorni scorsi – il Sudan torna al punto di partenza. Quanto meno, il premier Abdalla Hamdok torna sulla sua poltrona e il generale Abdel Fattah al Burhan che lo scorso 26 ottobre l’aveva bruscamente liquidato torna a più miti consigli.

TUTTI CONTENTI, O QUASI. Se il segretario di stato Usa Blinken definisce «incoraggiante» il passo compiuto a Khartoum, vuol dire che la Casa bianca è pronta a scongelare i copiosi fondi stanziati a suo tempo per sostenere l’economia sudanese. E che al Burhan poteva sognarsi senza questo passo.

Ma la farsa di questa storia che si ripete sembra aver scavato un solco profondo stavolta, tra chi è disposto a credere alla buona fede rinnovata dei militari e chi invece pensa che enough sia enough. Le Forze per la libertà e il cambiamento, l’ampia coalizione di forze politiche e associazioni professionali cui si deve la lunga mobilitazione che ha portato prima al tramonto di Omar al Bashir e poi al faticoso accordo con l’esercito per una transizione ipoteticamente condivisa, sono decisamente per la seconda. Dopo quanto successo un accordo al ribasso non è sostenibile, avanti con le mobilitazioni contro quella che di fatto «è una legittimazione del golpe».

LA PROTESTA NELLE STRADE è proseguita anche domenica, mentre il generale e il premier, autore e vittima del golpe, esibivano fianco a fianco la cartellina rosso porpora dell’accordo appena siglato. Tra i 14 punti che contiene c’è il rilascio di tutti i prigionieri politici, i membri del governo deposto come i manifestanti finiti in cella nell’ultima tornata di repressione. Si riafferma inoltre la validità della dichiarazione costituzionale del 2019 come base per la transizione democratica.

 

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HAMDOK PASSA COSÌ dagli arresti domiciliari alla guida di un governo «a guida civile» come chiedeva la comunità internazionale. E poco importa se la prima e l’ultima parola sul mandato e la composizione dell’esecutivo spettano sempre al Consiglio sovrano, presieduto dallo stesso al Burhan.

Ieri Hamdok in un’intervista rilasciata a al Jazeera ha provato a calmare gli animi: dice che sarà un governo ad interim di tecnocrati che «in piena autonomia» porterà il paese al voto entro giugno 2023. C’è pure l’impegno ad aprire un’inchiesta sulle violenze commesse dalle forze di sicurezza sui manifestanti nell’ultimo mese. E c’è da finire l’opera iniziata con la rimozione del Sudan dalla black list dei paesi che sostengono il terrorismo, ha rivendicato Hamdok. Il quale però ammette che l’accordo era «l’unica strada per evitare un altro bagno di sangue».

RISULTATO, 12 DEI “SUOI” ministri si sono dimessi in segno di protesta, dissociandosi dall’accordo politico raggiunto con il Consiglio sovrano. Il nuovo governo Hamdok nasce così senza Esteri, Giustizia, Lavoro, Trasporti, Sanità, Agricoltura, Irrigazione, Investimenti, Energia, Istruzione superiore, Gioventù e Affari religiosi.