Centosessanta anni fa il conte di Cavour decise di mandare dei soldati del Regno di Sardegna a combattere in Crimea. Si trattava di una scelta estemporanea e scaltra per conquistarsi un posto nel gioco diplomatico europeo. Erano stati gli inglesi, formalmente, a chiedergli di mandare delle truppe sabaude.

La ministra della difesa Roberta Pinotti, che di Cavour ha solo una portarei che porta il suo nome, ha solertemente offerto delle truppe italiane per una «missione di pace» in Ucraina (c’è tanto di intervista su la Repubblica del 4 maggio). Ma non gliel’ha chiesto nessuno, e meno male. Non gliel’hanno chiesto le Nazioni Unite, né la Nato (l’Alleanza atlantica), né i russi, né gli americani. Con un azzardato paragone con la situazione in Libano (che niente c’entra con quello che sta succedendo in Ucraina e dove le nostre truppe sono schierate nel territorio libanese perché riconosciute neutrali e al di sopra delle parti in conflitto), la ministra della difesa italiana dimostra di avere un’approssimativa consapevolezza di quello che sta succedendo nella crisi in Ucraina e un’eccessiva considerazione del ruolo di pacificazione delle nostre truppe. Tra l’altro in Afghanistan non è andata proprio come la racconta: lì siamo in guerra aperta.

In realtà – come evidenziato da molti- il conflitto ucraino non ha bisogno oggi di «prove muscolari» né di finte «missioni di pace», che non hanno alcuna possibilità di essere decise ed inviate, ma di riannodare il bandolo delle trattative e di una soluzione diplomatica, che è l’unica possibile. Se invece si continua ad andare verso una prova di forza allora la guerra è assicurata. In questo momento, la causa dell’incendio è l’offensiva militare dell’esercito ucraino contro i separatisti. Questa offensiva andrebbe fermata, perché – oltre a provocare una guerra su più vasta scala – ha ormai minato gli accordi di Ginevra (pure osteggiati da una parte dei separatisti) e la possibilità di una soluzione concertata della crisi nella regione.

La responsabilità dell’autocrate Vladimir Putin (con cui si sono intrattenuti, in affari e in politica, in questi anni tutti i leader delle democrazie occidentali) prima nel sostenere un leader corrotto e autoritario come Yanukovich e poi nel soffiare sul fuoco dei separatismi locali è evidente, come è altrettanto chiaro che c’è un problema reale delle minoranze russofone che si sentono minacciate dalle forze nazionaliste fasciste e antisemite ucraine.

Non però è solo farina del sacco di Putin; ci sono paure ed angosce reali della minoranza russa di quel paese (strumentalizzate dal leader di Mosca), cui gli «occidentali» meglio farebbero a dare risposte più rassicuranti che appoggiare i carri armati di Kiev. Dopo la fuga di Yanukovich nel febbraio scorso, uno dei primi atti del parlamento ucraino – poi bloccato dal veto del presidente Turcinov- è stato quello di abolire il russo come lingua ufficiale. È uno scenario «jugoslavo»: non è bastata la lezione degli anni ’90 a far capire agli europei che è necessario affrontare un conflitto di questo genere con strumenti diversi dall’interventismo armato e dall’arroganza della Nato.

Ed è proprio l’espansione, con tanto di stategia, della Nato ad est – e la pervicace intenzione di fare dell’Ucraina un suo prossimo avamposto – ad essere una delle cause principali di quello che sta succedendo in quel paese. «Ma che c’entrano gli americani con l’Ucraina?» si è chiesto Romano Prodi, invitando implicitamente gli europei a lasciarli fuori dalla porta e ad essere loro i protagonisti di una soluzione del conflitto in corso. Ma il problema è proprio questo: gli americani, in un modo o nell’altro, in Ucraina ci vogliono entrare e rimanerci per due motivi: stare a ridosso, magari con la Nato, alla potenza russa ed entrare nel gioco del controllo delle risorse e delle vie di comunicazione che attraversano il paese.

Quando si pensa ad una «missione di pace» in Ucraina bisogna essere chiari. Non basta dire «pacificazione». È una missione (dell’Alleanza atlantica) a sostegno del governo di Kiev? È una forza di interposizione (anche con truppe russe, solo così da Mosca possono accettarla) tra le forze separatiste e quelle del governo ucraino? In mancanza di chiarimenti dire come fa la nostra ministra difesa che l’Italia è disponibile a mandare delle proprie truppe, anche «attraverso la Nato, non significa nemmeno lontanamente emulare il conte Cavour di centosessanta anni fa (che aveva comunque una sua visione e degli obiettivi ben precisi), bensì semplicemente mettersi al servizio. Ma non certo della pace.