Una poesia, è stato detto, è una traduzione di cui s’è perso l’originale. A guardar bene, tradurre è sempre perdere, ma per poi recuperare. Tradurre significa innanzitutto cambiare, poiché nel passaggio da una lingua-cultura a un’altra si vengono a modificare le entità minime del linguaggio; e lo fanno in maniera irreparabile. Eppure, in questo mutamento totale, qualcosa rimane tra le pagine chiare e i segni scuri che il traduttore restituisce.
Esce in questi giorni, per la piccola ma coraggiosa casa editrice 101edizioni, un volume di Luigi Giuliani dal titolo Li sonetti de Shakespeare (pp. 330, euro 15). È una traduzione in romanesco dei famosi sonnets del Bardo: una versione da cui emerge intatta e anche amplificata, una forza popolare del tutto inattesa.

PER UN TRADUTTORE, le versioni in vernacolo sono sempre sospette. Sembrano spesso partire da un presupposto errato, ossia che il dialetto debba fare di tutto per uscire da una condizione di inferiorità, dimostrando di possedere potenzialità espressive simili a quelle delle lingue ufficiali. Si crede, infatti, che quelle locali siano meno costrette da architetture e geometrie normative, e dunque più libere.
In realtà, il dialetto ha tante regole quante ne ha una lingua standard; e poi, il livello di libertà linguistica non c’entra nulla con l’espressività di un idioma. Eppure, è un dato di fatto che, con certi scrittori, il dialetto sia in grado più di far esplodere potenziali espressivi in maniera nuova e inaspettata.

QUELLO CHE GIULIANI, raffinato ispanista, fa di e con Shakespeare, è sollecitare l’emersione proprio di questo carattere popolare, e al contempo stratificato e complesso del poeta e drammaturgo inglese, un aspetto di cui tanto spesso ci dimentichiamo. Shakespeare, scrive i sonetti suoi giovanissimo, venuto a Londra dalla provincia, e intriso al contempo di cultura popolare ma anche di excursus proficui nel sapere classico. È in una simile dualità, in un tale rimescolio di alto e basso che poi svetta sui contemporanei, surclassati per l’inventiva del linguaggio, e per l’immaginazione sconfinata.
Questi sonetti, che vivono di doppi sensi, allusioni sessuali, giochi di parole e di pensiero che trasformano concettosità spirituali nella dimensione di una festosa carnalità, esplodono in romanesco ancor più che in italiano: «Stracotto de fatica córo a lletto, / ch’è er posto pe cchi è stracco der cammino, / ma poi in capoccia inizzio ’n antro viaggio/ che mme tormenta quanno er corpo sbraca». Quel journey in my head, che nell’originale terrà gli occhi dell’amante fissi sull’oscurità, in traduzione romanesca finisce per forzarlo «a fissà er bujo come fa er cecato».
Esistenzialismo del passato o del futuro?
Anche tradurre significa fissare il buio, ma il buio è un luogo a cui restituire luce. Tuttavia, la restituzione è d’altro tipo rispetto a quella solita, per cui ci viene richiesto di ridare indietro intatto quel che s’è ricevuto. La traduzione quel qualcosa lo trasfigura, ripensa l’oggetto pensato, lo scompone. E il vero traduttore, il grande artista, è colui che sa, dopo averlo smembrato, rimembrarlo. Dargli, ovvero, nuove membra perché possa poi muoversi da solo.

TUTTO QUESTO VITALISMO si perpetua in maniera sorprendente nella traduzione romanesca di Giuliani, con una levità che poche traduzioni – quasi tutte accademiche – hanno: «Ne la causa legale che hanno aperto / Odio e Amore se meneno de bbrutto / perché mm’hanno accusato d’èsse complice / der dorce ladro che mme rubba tutto».
Poco importa se in inglese, al posto delle botte si aveva una civil war, quando poi lo sweet thief, divenendo il «dorce ladro», ci fa comprendere che persino il suono, in traduzione, trasfigurato sa mantenersi nel gioco ardito delle altalene consonantiche.