Di una cosa, assicura Matteo Renzi, si può essere certi. Anche se i tempi della discussione parlamentare dovessero andare per le lunghe, sulla riforma della Rai il governo non interverrà con un decreto. Questa ipotesi del resto era stata da tempo accantonata, perché il Quirinale non avrebbe gradito. E in fondo a sentire le ben novità in arrivo («piccole modifiche», ammette lo stesso presidente del consiglio), c’è ben poco di urgente su cui decretare.

Ma il presidente del consiglio, al termine del consiglio dei ministri che approva il ddl sulla riforma della governance di viale Mazzini, vuole cogliere il pretesto per dimostrare quanto lui, checché se ne dica, sia rispettoso del parlamento. Lo dice e lo ripete quando illustra i contenuti del ddl che prevede – come ampiamente anticipato – un consiglio d’amministrazione che passa dai nove membri della legge Gasparri, quella attualmente in vigore, a sette. Quattro dei quali, appunto, saranno scelti dal parlamento, due dalla camera e due dal senato (riformato). E resterà in piedi, con poteri di controllo e indirizzo anche se non più di nomina, pure la commissione di vigilanza Rai, «ne difendiamo il ruolo perché noi siamo favorevoli a che il parlamento vigili», mica come i 5 stelle che «la commissione volevano abolirla» (saggiamente). Non che il passaggio dei poteri di nomina da palazzo San Macuto a palazzo Madama e Montecitorio cambi chissà che: sono sempre i partiti a decidere, ma il premier vorrebbe far credere che in questo modo saranno messi «fuori partiti e correnti politiche dalla gestione della quotidianità Rai».

Altri due membri del consiglio d’amministrazione, secondo il ddl, saranno nominati dal consiglio dei ministri su proposta dell’azionista (il ministero dell’economia) e uno sarà il rappresentante eletto dall’assemblea dei dipendenti Rai. E qui allora altro che un governo che non ha a cuore i lavoratori (scenetta già fatta la settimana scorsa, ma ripetuta con una certa insistenza alla vigilia della manifestazione della Fiom).

E ancora, il presidente del cda sarà scelto al suo interno dallo stesso consiglio d’amministrazione. E il supermanager a capo dell’azienda? Sarà un amministratore delegato anche questo nominato dal consiglio d’amministrazione, ma «sentito l’azionista» (il governo). Resterà in carica per tre anni e avrà «ampi poteri», tra i quali quello di nominare i direttori e quello di decidere su spese fino a 10 milioni di euro (ora il tetto è di 2,5). Le sentenze della Corte costituzionale non autorizzavano l’ipotesi che il governo avesse un ruolo esclusivo e prevalente nella scelta dei vertici della tv pubblica. Ma con due membri del cda scelti dallo stesso governo e quattro di nomina parlamentare, è difficile immaginare che il futuro capo azienda non avrà un profilo renziano, «sentito l’azionista». Come con la berlusconiana legge Gasparri.

Sul fronte del canone, si prende ancora tempo: il ddl prevede che la riforma venga delegata al governo «entro un anno dall’entrata in vigore della legge». Ma per quanto lo riguarda, Renzi chiarisce: «Io appartengo a una cultura che il canone vorrebbe eliminarlo». Accanto a lui, il sottosegretario alle comunicazioni Antonio Giacomelli oppone un timido «io non so se sono esattamente della scuola del presidente, però parteciperò all’approfondimento del governo».

Dall’azienda arriva la delusione del sindacato Usigrai che insieme alla Fnsi nota: « Non c’è la rivoluzione che noi auspichiamo. Ci aspettavamo la rottamazione della Gasparri, insieme al controllo sulla Rai dei partiti e dei governi, ma la soluzione annunciata non va in questa direzione».

Per dare verve alle «piccole modifiche» (e Renzi stavolta dice «non imponiamo niente al parlamento», ma se la riforma non sarà approvata entro luglio la colpa sarà proprio del parlamento, dice), il premier presenta per il futuro «un documento politico programmatico che racconta cosa è la Rai e dal quale vorremmo partisse il dibattito, senza tifoserie». Nel documento è scritto che «la Rai non è una municipalizzata di provincia» mentre «la Gasparri va nella direzione opposta, condannandola a subire spaccature e rissosità del parlamento». Ma Gasparri non se la prende: «Siamo aperti al confronto».