«E’ l’uomo per me…« (difficile che sia una donna, il gender pesa dove si decide per davvero) avrà forse pensato – Mina docet – il presidente del consiglio all’atto di presentare il suo semilavorato sulla Rai, finalizzato ad introdurre la figura del capo-azienda.

Ha persino ragione Maurizio Gasparri a rivendicare la continuità con la sua legge del 2004, in effetti appena scalfita. L’articolo 20, quello che disciplina l’assetto del servizio pubblico, è un po’ novellato – una sfumatura di grigio – mentre l’inquietante spirito berlusconiano della l.112, come e più della vecchia legge Mammì dell’agosto ’90, vive e lotta insieme a noi. Ha ben detto Enrico Mentana: da Renzi –campione presunto dell’innovazione- era lecito attendersi qualcosa di meglio. Conflitto di interessi, antitrust, politiche di sviluppo della produzione italiana ed europea sono assenti. Forse non fanno share e audience come il ritornello farisaico del «via i partiti» o non rispondono al culto dell’Autorità (da non confondersi con l’Agcom) di moda in quest’epoca: buia anche a mezzogiorno.

La mancanza di attenzione alla missione editoriale è, pure, un altro bel peccato del testo governativo. Ne ha detto con efficacia Giovanni Minoli. E non solo. Per una volta le gesta renziane non hanno trovato soverchi consensi, bensì critiche e qualche commento vago o imbarazzato. Come si dice, la prova del budino non ha funzionato. Per non dire del documento di accompagno su cui, con rispetto parlando, chissà quale mediologo ha messo le mani. «La Rai non è una municipalizzata di provincia…» si scrive. Accidenti.

Rimane il mistero sul perché –dopo tanto conversare- ci si sia ridotti a questa pezza a colori. A meno che ci siano scelte sottese al momento ignote.

Tuttavia, siamo ancora in una Repubblica parlamentare e, se si partisse dai progetti depositati nel frattempo alla Camera e al Senato, il futuro sarebbe meno plumbeo. A parte la n.420 presentata dalla Lega Nord nel marzo del 2013 tesa a riproporre il tradizionale item padano (?) sulla privatizzazione dell’azienda, le altre proposte sono assai meglio di ciò che ha anticipato il Governo. Gli articolati di Fratoianni e Civati (n.2931 alla Camera, gemella di De Petris e Lo Giudice, atto n. 1823 al Senato) e quelli di Fico e 5Stelle; nonché di Buemi (A.S. 1570), di Fornaro, Martini e Gotor sempre al Senato; il ddl n.2924 di Marazziti o il n.2846 Anzaldi (Camera) sono, nelle loro diversità, materiali comunque contigui. Importanti frammenti di un discorso riformatore.

Senza dubbio, quindi, è praticabile un fattivo incontro parlamentare. Per esempio, si registra una positiva convergenza su modalità rigorose di scelta dei vertici del servizio pubblico, con l’introduzione di un modello «duale»: vale a dire lo stacco tra la governance e la gestione diretta; ovvero una meticolosa selezione di merito.

I lavori preparatori che portarono alla legge n.103 del 1975 dimostrano che il dibattito argomentato ed approfondito è in grado di trovare una sintesi. Altrettanto va tentato oggi. Anche perché da Palazzo Chigi non è ancora arrivato un dossier preciso.

Se si comincia, si eviterebbe verosimilmente il grottesco esito di rieleggere il consiglio di amministrazione -in scadenza a giugno- con la lex di regime in vigore. Tra l’altro, la revisione dei criteri di nomina non risolverebbe ancora la questione delicata prossima ventura: nel maggio del 2016 andrà rinnovata la Convenzione con lo Stato, strumento essenziale per definire ruoli e strategie di un servizio pubblico: forte o debole.

O proprio lì sta il busillis?