L’episodio capostipite si concludeva con Tris Prior (Shailene Woodley) e Four (Theo James) a bordo di un treno diretto verso un avvenire che prometteva rivoluzione. Al di là delle mura della città, retta con pugno di ferro da Jeanine (Kate Winslet). Ritroviamo ora i due protagonisti accolti nella comunità cripto-Hamish guidata da Octavia Spencer. Prodotto esecutivamente da Neil Burger, regista del primo capitolo, Insurgent è un tantino meno teorico nell’esplorazione delle possibilità politiche offerte dalla premessa narrativa dei libri di Veronica Roth. Divisa in fazioni (le care, vecchie classi di marxiana memoria…), a ognuno secondo le sue capacità e possibilità, la società di Divergent assomiglia a una catena di montaggio. Il fordismo sociale come ultimo tassello di un ritorno al determinismo dopo il crollo del mondo occidentale inteso come ultima frontiera del neoliberismo.

 

 

Nel film di Burger questi elementi, anche se in forme a volte didascaliche, venivano lavorati come elementi per caratterizzare una rebel without a cause che progressivamente, invece, una causa scopre di averla. Nel sequel, diretto dal tedesco Robert Schwentke – responsabile del mediocre RED e del pessimo R.I.P.D. – Poliziotti dall’aldilà – fotografato da un ottimo Florian Ballhaus, figlio del fassbinderiano e scorsesiano Michael, le premesse politiche del film precedente vengono messe da parte per permettere al film di rientrare più agevolmente nel filone young adult. Se dunque il capostipite era tutto interno all’ordinamento sociale, il sequel esplora il mondo esterno al di là delle mura. In attesa del conflitto finale, il viaggio al di fuori del perimetro della città, fra le fazioni, assume, forse in maniera sin troppo evidente, i toni di un viaggio alla scoperta della protagonista. L’esplorazione, tutta in orizzontale della geografia del mondo di Divergent, procede parallelamente, ma in verticale con una serie di simulazioni che equivalgono a una serie di sedute di analisi risolte come spettacolari set-piece (geniale la casa in fiamme volante dalla quale Tris deve salvare la madre interpretata da Ashley Judd). Senza dimenticare un siero della verità che impedisce di mentire e costringe letteralmente ad ammettere i propri timori più neri.

 

 

In questo gioco di equilibri e conflitti che oppongono lo spazio interiore dei protagonisti teenager all’esterno di un mondo adulto ridotto in rovine (notevolissime nel loro realismo le scenografie di Alec Hammond) risuona evidente la lezione dei manga dove il mondo lo si ricostruisce a partire dalla propria esperienza (oltre che età anagrafica) in un tentativo di cancellare la nefasta esperienza degli adulti.
Laddove il cinema catastrofico degli anni Settanta distruggeva i simboli del mondo occidentale per rifondare il patto sociale (come suggeriva il compianto Antonio Fabozzi), cicli come Hunger Games, The Host e Divergent sono letteralmente ambientate alla fine della storia, ma non nel generico post-catastrofe canonizzato da Mad Max.

 
La catastrofe del filone young adult è quella del fallimento della politica e la «quest»dei suoi eroi è tutta volta alla reinvenzione di un discorso politico in grado di valorizzare la presenza di quanti, invece, ne sono stati esclusi. Ed è proprio questo elemento, l’utopia di una partecipazione nuova, che attrae il pubblico cui questi film sono diretti. Basti pensare al volo finale della macchina da presa fra le strade di quella che si suppone essere New York (ma il film è stato girato ad Atlanta) trasformata in una specie di canyon, ripopolata come dal nulla da migliaia di corpi che accorrono alla novella della… rivoluzione. E non è poca cosa, oggi, tifare per la rivoluzione dal cuore dell’impero.