Era il 2008 quando Vittorio Arrigoni arrivò a Gaza a bordo della Dignity, nave della campagna Free Gaza. Il porto di Gaza City non era stato ancora distrutto dalle bombe dell’aviazione israeliana, ma all’operazione Piombo Fuso mancava poco. Dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 Gaza assistette alla distruzione completa e alla violenta morte di almeno 1.320 gazawi. La pioggia di bombe rase al suolo anche il porto, prima del 1967 uno dei principali scali del Mediterraneo e oggi ridotto a mero parcheggio per le barche dei pochi pescatori rimasti testardamente a lavorare nel mare della Striscia. Dopo Piombo Fuso il porto è stato ricostruito. All’ingresso sono parcheggiate jeep datate e vecchie motociclette. Donne e bambini camminano sul lungo mare, accanto al monumento in memoria dei nove attivisti turchi uccisi dai commando israeliani al largo di Gaza il 30 maggio 2010.

Oggi il porto è teatro della nuova iniziativa della campagna Freedom Flotilla, l’Arca di Gaza. A cambiare però è il percorso: la nave, acquistata e rimessa a nuovo da attivisti palestinesi e internazionali non proverà ad entrare nella Striscia, ma ad uscire. L’imbarcazione, dopo mesi di lavori, è pronta. Obiettivo, farla salpare entro giugno, o al massimo settembre, con a bordo prodotti dell’enclave palestinese sotto assedio. Il sole sta ormai tramontando sul mare di Gaza. Di fronte al vascello rimesso a nuovo, incontriamo Charlie Andreasson, volontario svedese impegnato nella ricostruzione e nell’organizzazione della spedizione: «Da quasi un anno stiamo costruendo l’Arca, aiutati da ingegneri e operai: è un progetto gazawi e non solo internazionale. Salperà con a bordo 12 internazionali, giornalisti e politici, per attirare l’attenzione del mondo su questo nuovo tentativo di rompere l’assedio israeliano contro la Striscia». La nave di legno, lunga 24 metri e con un cargo di 40 metri quadri, porterà con sé prodotti agricoli, olio d’oliva, datteri, spezie, tappeti, stoffe e ricami. Tutti beni prodotti a Gaza perché – ci spiega Charlie – «non cerchiamo aiuti umanitari, ma commercio vero e proprio».

A strangolare Gaza, infatti, non è solo il totale controllo israeliano sulle importazioni. Più pericoloso è il bando alle esportazioni: «L’embargo danneggia in profondità la struttura produttiva – continua Charlie – Oggi da Gaza escono solo le fragole vendute in Europa. Ma niente arriva in Cisgiordania, che dovrebbe essere il suo naturale mercato. A ciò si aggiunge il controllo israeliano sull’unico valico verso l’esterno, Kerem Shalom, dopo la chiusura di quello di Rafah con l’Egitto. Ritardi, controlli eccessivi, burocrazia insostenibile, costi molto più elevati del normale. E Israele genera ulteriore profitto».

La sfida dell’Arca di Gaza è proprio questa: riaprire il porto di Gaza al commercio con il mondo esterno. Da tempo gli organizzatori hanno preso contatti con compratori nei Paesi dell’area mediterranea: attraverso il sito della Gaza’s Ark è possibile acquistare i prodotti che salperanno tra pochi mesi. Nella speranza che giungano a destinazione. Il timore è quello di un ennesimo raid da parte della Marina israeliana, cane da guardia lungo la costa della Striscia. Innumerevoli gli attacchi contro i pescatori gazawi che tentano di portare a casa una giornata di lavoro. Charlie è ottimista: «Non credo che questa volta la Marina israeliana ci attaccherà. Non tentiamo di raggiungere Gaza, ma di uscirne. Se raggiungeremo le acque internazionali, lanceremo subito il nostro messaggio: il porto di Gaza City è di nuovo aperto il commercio». Un porto chiuso dal 1967, che vive una morte quotidiana: dal 2000 ad oggi la produzione è calata di oltre il 40%, mentre sono solo tremila i pescatori ancora in attività, il 42% in meno di 14 anni fa. L’Arca di Gaza ci prova, anche nel ricordo di Vittorio.