Il teatro contemporaneo sembra poggiarsi di nuovo alla parola, alla trama, alla cronaca e ai personaggi. Allora, ben venga di nuovo il rivolgersi alle cosiddette virtù del testo, dopo anni in cui il far teatro è restato ancorato ad un’idea espansa di arti performative e corporee, mentre lo stesso resisteva ancorato a stili del passato e relegato al teatro cosiddetto d’abbonamento o di prosa. Niente di più sbagliato perché nella drammaturgia contemporanea, da almeno quaranta anni a questa parte, in modi talmente raffinati da mascherarla, è la scrittura a dettare le regole d’ingaggio sia che si avvalga di trame narrative e romanzesche sia che le medesime vengano fornite dalla quotidianità, per quanto i fatti proposti sfiorino l’assurdo, già preso convenientemente in prestito da molti drammaturghi nella seconda metà del ‘900. E con buona pace di molti che vedono in questa scrittura derivata se non una falsificazione una disdicevole, ma pratica scorciatoia estetica, che però allarga di molto la platea d’ascolto, anche per progetti all’apparenza impossibili. Qui si corre alle operazioni sottilmente chirurgiche di Stefano Massini capace di esplorare, a tutto campo, moltiplicando le fasi di scrittura (dramma, romanzo, saggio, poema), le contraddizioni sociali economiche e in ultimo psichiche del presente contemporaneo già affrancato dalla modernità: dalla Lehman Trilogy all’imminente Freud o l’interpretazione dei sogni (al Piccolo Teatro Strehler per la regia di Federico Tiezzi dal 23 gennaio) e con i mezzo testi come «7 minuti» (anche al cinema) e «credoinsolodio» (vale la doppia lettura sciolta in credo in solo dio o credo in un sol odio). Quest’ultimo apripista di un filone che negli ultimi mesi ha visto rappresentare un pugno di testi in cui la cronaca, intrecciata alla recrudescenza del terrorismo in Europa sia di matrice fondamentalista, razzista ed islamica, si fa scelta esistenziale e la tragedia s’affaccia prepotente nelle vite degli altri.
UTOYA
È un cambio di prospettiva rispetto alla classicità della tragedia. L’eroe scende dal piedistallo e si fa comprimario; e coloro che gli sono vicino diventano inconsapevoli protagonisti della sua scelta. Il tema di questi testi, infatti, è la scelta libera di vivere come si desidera, perlopiù lontano dalle convenzioni morali correnti del quotidiano vivere civile occidentale ed europeo. Ed in particolare ad essere colpite da questa improvvisa malattia di libertà sono giovani ragazze. Mentre si resta in attesa del debutto della Scuola delle Scimmie di Bruno Fornasari, uno di questi testi è Utoya di Edoardo Erba, dal libro Il silenzio sugli innocenti e con la consulenza del suo autore Luca Mariani, regia di Serena Sinigaglia, ospitato la settimana scorsa al Teatro Filodrammatici di Milano con grande successo, tanto da veder raddoppiato il matinée domenicale, si torna al tempo della cronaca, riprospettata però da punti diversi che ne ricostruiscono gli aspetti meno visibili o perlomeno intuibili, in cui peraltro secondo l’autore si nasconde «la luce della poesia». Il 22 luglio del 2011 nell’isola norvegese di Utoya un centinaio di ragazzi, lì per un campus estivo del Partito Laburista locale, furono braccati e più di cinquanta di loro uccisi da un solo uomo, in apparenza vestito da poliziotto, che in un’azione coordinata riuscì prima a piazzare degli ordigni in un veicolo e farli esplodere vicino al palazzo del governo e poi come detto a perpetrare uno dei più feroci attacchi terroristi avvenuti in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale. L’autore delle strage era bianco, norvegese, inzeppato di teorie naziste d’odio e antisemite. Un figlio perfetto si direbbe per l’Europa dei populismi contemporanei. Fortunatamente preso e condannato. Non si pronuncia il nome e non lo pronunciano i vicini di casa che qualcosa avevano capito di lui, perlomeno il fratello della coppia bislacca che ne osservava, né lo pronunciano i poliziotti incapaci di intervenire senza un comando preciso. Tantomeno la coppia in crisi che non sa nulla della figlia ribelle spedita al campeggio nel tentativo di ricondurla ad una corretta disciplina di comportamento. Ed è proprio la disubbidienza di questa ragazza del nostro tempo, che la salva, a suggerire una soluzione alla crisi di giudizio e di valore. Ad interpretare le tre coppie, Arianna Scommegna e Mattia Fabris che, nella mutevolezza dei comportamenti e nell’inedito svolgimento degli accadimenti, riescono a far immedesimare il pubblico nei rispettivi tic comportamentali e psicologici.
TU ES LIBRE
Mentre non si intravedono soluzioni nella vicenda di un’altra ragazza, Haner, in Tu es libre di Francesca Garolla con la regia rarefatta misurata e a totale servizio di Renzo Martinelli (questa sera in seconda replica al Teatro Cantiere Florida di Firenze, dopo una tenitura al Teatroi di Milano di quasi un mese, tra il novembre e il dicembre dello scorso anno e una prima all’inizio di ottobre al Fit di Lugano). «Avevo in mente di lavorare su quelle figure che entrano a far parte della storia», dice la Garolla, Dramaturg del Teatroi, che ha lavorato sul testo e i personaggi tra il 2014 e il 2015, grazie al sostegno di Fabulamundi e a due residenze artistiche alla Chartreuse di Avignone. Al festival di Avignone poi è avvenuta la prima lettura del testo. «Mi sono ispirata alla vicenda della ragazza complice dell’attentatore del Kosher Marché di Parigi, sparita nel nulla. Di lei non si è saputo più nulla. C’era solo una sua foto in bikini». Di una vita, dunque, precedente alla scelta di compiere attentati, di far del male? «Mi sono molto documentata. Ho letto molti libri, molta filosofia, la Weil, Girard, la Harendt, ma anche fumetti e i testi sacri. E certamente la cronaca». Un lavoro ad ampio raggio e a tutto campo che riversato nel testo dà la stura ad una vera istruttoria sul caso di questa ragazza, Haner (Maria Gaggianelli, in Call you by Your name di Guadagnino), andando ad indagare nelle pieghe di una quotidianità divisa tra scuola, amicizie e amorini (Liliana Benini, tra le più promettenti attrici sotto i trent’anni e Alberto Malachino) e contrasti adolescenziali con i genitori (Viola Graziosi e Alberto Onofrietti), non presaghi di ciò che sarebbe accaduto. Da qui la predisposizione della regia di Martinelli che scherma il campo teatrale in una bidimensionalità mediatica pur riflessa nel giallo deserto della finzione scenica, zeppo di simboli e con l’autrice in scena, reminescenza degli scrivani testoriani (gli ultimi lavori la Garolla li ha condotti sull’Erodias e sugli Angeli dello sterminio di Testori), che rafforza la scelta di Haner, che è solo sua.