Un presidente statunitense all’Avana che si rivolge direttamente al popolo dell’isola. Parla da El Gran Teatro, icona della cultura cubana. Attraverso la tv di stato. Ed ecco tre giorni dopo la rockstar più celebre al mondo che radunerà centinaia di migliaia di persone in uno stadio. Solo Fidel, in altri tempi, avrebbe potuto farlo.

Qualcosa è cambiato a Cuba. È un cambiamento epocale. I politologi sono all’opera per sezionare anche le virgole di Obama, per indagare ogni gesto di Raúl Castro. Per valutare se nella «nuova» rivoluzione cubana c’è posto anche per i dissidenti, se è una trasformazione democratica di stampo occidentale o se, dietro le aperture del regime, resta ostinata la chiusura ai diritti universali. Chiacchiere effimere, di cui non resterà traccia, perché a fare la storia di questi giorni, con Obama, c’è Mick Jagger che venerdì canterà Satisfaction di fronte a una folla oceanica, seconda tappa del suo tour America Latina Olé, la prima in Messico dove ha graffiato Donald Trump, citando il suo collega dei Pink Floyd Roger Waters che farà un concerto ispirato al celeberrimo album The Wall. Il Muro, quello che vuole costruire al confine col Messico l’immobiliarista di New York in corsa per prendere il posto di Obama il prossimo 8 novembre.

Essì, è inevitabile e giusto fare le pulci ai fratelli Castro su diritti e democrazia, ma è bene non lasciare sullo sfondo la particolarità di quanto accade in questi giorni a Cuba. E negli Usa. La specificità, cioè, di un presidente, il primo africano americano alla Casa Bianca, che ha voluto caparbiamente fare della fine dell’embargo intorno a Cuba e del ripristino di relazioni normali con l’Avana il tratto saliente della sua presidenza, lasciando un’orma nella storia del continente americano, e non solo. Una parentesi, però, quella della presidenza Obama. Specie se a lui seguirà Donald Trump, paladino di un’America di segno opposto, rude, ostile, allergica a far parte del nuovo contesto continentale americano, nel quale la componente latina assume pari valore e dignità rispetto a quella per troppo tempo egemone, anglo protestante bianca.

E anche fosse Hillary l’erede di Obama, s’affermerebbe comunque l’ideologia di un’America per niente propensa a relazioni paritarie con i paesi vicini, così come le intende Obama, quando enfatizza, al di là del ripristino dei rapporti formali tra governi, l’importanza di «normalizzare i rapporti con il popolo cubano», dopo quella che «un giorno sarà vista come un’aberrazione», il periodo dell’embargo.

Con la visita a Cuba, Obama dice che intende «seppellire quel che resta della guerra fredda» nel continente americano. Ed ecco che la sua seconda giornata all’Avana è in parte oscurata dai fatti gravi di Bruxelles, che rimbalzano a Cuba, a ricordare che le deprecate certezze del mondo rigidamente bipolare possono lasciare il posto all’escalation incontrollata di conflitti d’ogni grado, se il metodo del dialogo – proprio quello di Barack Obama e dei fratelli Castro – non sarà prevalente e se, invece, avrà la meglio quello opposto, di un Trump, e del populismo europeo, e anche l’approccio muscolare che Hillary Clinton propone con sempre più insistenza in questa fase della sua campagna presidenziale, lasciando intendere che volterà pagina rispetto alla politica obamiana.

Certo, quanto avviene oggi a Cuba lo si deve alla politica, che ha saputo incrociare i tempi giusti per potersi affermare. I tempi maturi perché questa visita apparisse come un evento normale, a dispetto della sua straordinarietà. Anche per questo, dovesse anche cambiare radicalmente la linea internazionale di Washington, difficilmente si tornerà indietro. Per il 62% degli americani è un bene la riapertura delle relazioni con l’Avana. L’isola è già meta di charter di turisti statunitensi. Al seguito di Obama c’è una nutrita comitiva di uomini d’affari. E poi c’è lo sport che unisce, la comune passione per il baseball. C’è il milione e mezzo di cubani fuggiti negli Usa, prevalentemente in Florida, ansiosi di poter avere rapporti con i parenti rimasti nell’isola, e gli undici milioni di cubani desiderosi di poter viaggiare e un giorno andare anche negli Usa, se e quando l’economia produrrà più ricchezza. O produrrà un piccolo ceto di persone ricche. Già, perché anche questo è da vedere, nella dinamica che si sta profilando: come procederà il nuovo corso cubano? In quale direzione? Non solo nel senso dei diritti della persona, fondamentali, ma in quelli della vita di tutti i giorni per la gran parte delle persone. Obama, di questo, non ha parlato, tanto meno i tanti commentatori come sempre molto poco attenti alla vita reale della maggioranza della gente comune.