Da tre settimane, Rabaa sembra una nuova «Repubblica islamica». La moschea di Medinat Nassr, scelta dai Fratelli musulmani per riconquistare le istituzioni scippate, ricorda la Repubblica islamica di Emaba. Era il 1992, quando le gamaat al islamya, associazioni islamiche universitarie, occuparono il quartiere di Embaba e crearono scuole, radio, assistenza sociale, indipendenti dallo stato. Qui in un certo senso sta avvenendo lo stesso: a Rabaa al Adweya non c’è polizia né esercito, le uniche incursioni dello stato avvengono con il passaggio a bassa quota di aerei militari. Rabaa ha la sua radio e la sua tv.

Un giovane giornalista festeggia perché in queste vie ha ripreso il suo lavoro: dopo il licenziamento forzato e la riprogrammazione con immagini di repertorio. «Da appena due giorni è nata Harrar 25, sostituisce il canale Misr 25 chiuso nei giorni scorsi», ci spiega Ahmed. Complice il Ramadan, è nato un sistema strutturato di distribuzione del cibo per l’iftar (la cena dopo la preghiera della sera che rompe il digiuno). A essere presi di mira non sono più le strade ma i ponti, come simboli del collegamento tra due mondi opposti. I primi scontri sono scoppiati alle porte della moschea Al Azhar tra pro e anti Morsi. Sono state arrestate 13 persone, secondo la polizia si tratta di siriani e palestinesi venuti a combattere per Morsi in Egitto. Le forze armate egiziane hanno quindi chiuso al Cairo tutte le strade che conducono alla sede della Guardia repubblicana, dove l’ex presidente sarebbe detenuto. Chi dovesse attaccare installazioni militari e le forze a loro protezione «lo farà a rischio della vita», ha intimato in un discorso televisivo il portavoce delle forze armate egiziane Ahmed Ali.

Ma gli islamisti sembrano non voler sentire. «Controlliamo piazza Abbasseya e il ponte Salah Salem»: urla il dirigente di Libertà e giustizia Mohammed Beltagi agli accolti che gli rispondono «Abbasso, abbasso il governo militare». E così, tra chili di carne, datteri e litri di succhi di ogni colore, distribuiti alla folla o attesi all’ingresso di una baracca di legno, monta l’odio verso l’esercito. Non tutto, ma della corrente, vicina a Abdel Fattah Sisi, che ha usurpato il sogno islamista, atteso ottanta anni, di governare. Il 19 luglio è una giornata evocativa: il decimo giorno di Ramadan e la ricorrenza della guerra contro Israele del Kippur (1973). «Masri Islameya» (Egitto islamica): risuonano le casse in piazza Nahda, alle porte dell’Università del Cairo, a Giza. «Siamo qui contro il colpo militare, vogliamo indietro Morsi e la Shura (l’unica camera eletta, sciolta con il golpe del 3 luglio, ndr)», ci assicurano Mustafa e Mahmud, entrambi 24 anni. «Con noi ci sono donne e bambini e tutti diciamo che Sisi non ha la legittimità per fare questo. Stasera proveremo ad andare a Ramsis (dove hanno avuto luogo sanguinosi scontri con la polizia, ndr)», continuano i giovani. Lentamente le transenne si spostano verso via Mourad e lo spazio occupato aumenta. «(Sisi e Baradei, ndr) non hanno legittimità, nessuno li ha eletti, sono venuti sopra i carri armati», prosegue Mustafa, 35 anni, analista informatico.

Cresce però anche il risentimento di chi della «Repubblica di Rabaa» non ne vuol sentir parlare. Le lamentele per i disagi arrecati agli abitanti del quartiere aumentano. Per questo gli islamisti hanno promesso che puliranno le strade e ripareranno le abitazioni danneggiate, limitando l’uso di fuochi d’artificio. Qui non ci sono solo giovani ma migliaia di famiglie della classe media e della borghesia urbana. Alcuni portano al petto un’immagine di Morsi nell’atto di pregare. «Rais bi ghiné» (il presidente per una lira): urla un venditore di maschere con il volto di Morsi alla folla. Le condizioni di detenzione dell’ex presidente, a cui è stato revocato ieri il passaporto diplomatico, destano non poche preoccupazioni. Sono arrivate anche le critiche di Amnesty International che ha parlato di «sparizione forzosa» in riferimento alla detenzione di Morsi e al trattamento subito dai suoi sostenitori. In un comunicato Amnesty stigmatizza il ricorso a maltrattamenti, torture e elettroshock nei confronti di almeno 650 islamisti. Infine, se gli Stati uniti hanno confermato gli aiuti militari all’Egitto, pari a 1,3 miliardi di dollari, con vaghi riferimenti al rispetto dei diritti umani, libere elezioni e alla fine del contrabbando con Gaza, la Gran Bretagna ha deciso di non autorizzare l’esportazione di alcun equipaggiamento militare in Egitto per il rischio che possa essere utilizzato contro i manifestanti.