Nel suo saggio del 1795 sulla Poesia ingenua e sentimentale Schiller attribuiva al genio un’indole necessariamente infantile, tale cioè da indurlo ad aderire in modo diretto e spontaneo alla verità della natura. In ogni autentica opera d’arte, intendeva, c’è un punto in cui la verità delle cose deve apparire con evidenza assoluta, senza la mediazione della riflessione, proprio come a un bambino appare immediatamente vero ogni oggetto di cui fa esperienza. Questo punto è la ragione stessa per la nascita dell’opera e il nucleo di verità di ogni poesia, per cui senza l’ingenuità non può esserci genio e non può esserci neanche opera davvero significativa. Tuttavia, il problema della modernità sapiente e cerebrale è che essa genera scrittori a loro volta sapienti e cerebrali i quali privilegiano l’idea rispetto alla rappresentazione, il punto di vista sulle cose rispetto alle cose stesse. Questi scrittori occultano il nucleo vitale della loro opera dietro la maschera della riflessione e ciò pone la letteratura al bivio fra la rinuncia definitiva all’atteggiamento ingenuo e una difficile opera di riconquista di quell’atteggiamento stesso.

Il Novecento, come si sa, ha largamente accettato l’idea che la letteratura, come ogni altra arte, debba affrontare la sfida della modernità sviluppando gli innumerevoli modi della narrazione riflessiva, dal romanzo filosofico alla narrazione diaristica, dal romanzo-saggio all’antiromanzo; modi che hanno segnato le stagioni del modernismo, delle avanguardie, delle postavanguardie e che ancora contraddistinguono moltissime espressioni della narrativa contemporanea. Anche il ventesimo secolo, tuttavia, ha conosciuto la nostalgia schilleriana per il ritorno dell’ingenuo e ha di tempo in tempo identificato in alcuni grandi autori (da Tolstoj a Hemingway o, magari, a García Márquez) gli ultimi rappresentanti di un’arte capace di restituire completamente la letteratura alla sua identità perduta. Ha pure conosciuto, il medesimo secolo, i tentativi di alcuni narratori di liberarsi a forza della deformazione prospettica, della tirannia dell’interessante, dell’atteggiamento scopertamente riflessivo e, in generale, del desiderio di esaltare il pensiero sull’immagine, l’idea sulla rappresentazione.

Jakob Wassermann appartiene certamente a questi narratori e i grandi romanzi da lui scritti fra il 1897 e il 1934 mettono in luce, quasi tutti, lo sforzo di riconquistare un’impassibilità e un’oggettività dello sguardo sulle cose che ha pochi termini di paragone nella letteratura tedesca di quegli anni. Da questo punto di vista la sua narrativa possiede un tratto nettamente sperimentale che va, però, in direzione opposta rispetto ai tentativi dei suoi grandi interlocutori contemporanei (che furono, fra gli altri, Rilke, Thomas Mann o Hugo von Hofmannsthal). I suoi modelli, come spiega in un saggio dialogico del 1904, L’arte del racconto, sono Goethe, Kleist proprio per la loro capacità di restituire sulla pagina avvenimenti straordinari senza mai costringere il lettore ad acquisire un punto di vista predefinito e prevaricante, senza mai sovrapporre la loro voce a quella dei puri e semplici fatti. Nel corso del tempo Wassermann ha quindi scritto molti romanzi e alcuni capolavori (Kaspar Hauser e Il caso Mauritius su tutti gli altri) sfidando tempi sempre più sensazionali o scandalosi nel tentativo di restituire il racconto alla sua originaria capacità di rappresentare senza semplificazioni o enfasi le forme molteplici del mondo. Anche per queste ragioni Wassermann è un autore molto interessante – oltre che estremamente leggibile – ed è dunque logico che l’usanza sempre più diffusa presso le case editrici italiane di attingere a quel serbatoio pressoché inesauribile di grandi scrittori che è la letteratura tedesca dei primi trent’anni del Novecento abbia raggiunto anche lui.
La terza esistenza di Joseph Kerkhoven, da poco uscito da Baldini & Castoldi nella collana «La Tartaruga» (pp. 528, euro 18,00) offre più che una vicenda ordinata una storia di storie in cui il medico (Kehrkoven), per reagire al tradimento della moglie, accetta un incarico a Giava, entra in contatto con la cultura locale e torna in Europa arricchito delle esperienze compiute, mentre la moglie (Marie) prende a dedicarsi interamente alla cura di vari sventurati in una specie di ricovero da lei diretto.

Il duplice percorso salva il matrimonio, ma Kehrkoven entra in contatto, nella clinica per la cura di patologie nervose che ha creato, con altre malattie della passione civile e dell’eros in cui si riflette l’indebolito impulso vitale di un’epoca e di un mondo. Accade così che vicende fin troppo sottilmente collegate si sovrappongano – la storia di un importante esponente politico piegato dai sensi di colpa e, soprattutto, il romanzo nel romanzo in cui uno scrittore racconta la vicenda del suo divorzio e delle sadiche ritorsioni della sua ex moglie in cui Wassermann ha riscritto, in pratica, la propria stessa esistenza – fino alla fine, in cui la morte del medico è annunciata ma non descritta, come a dimostrare che in lui più che in chiunque altro è salda quella volontà di vita che tutt’intorno si è perduta.

Nonostante la sua natura composita il romanzo – l’ultimo dell’autore, rimasto per questo privo delle necessarie revisioni strutturali e stilistiche – offrirebbe comunque una buona idea delle qualità della scrittura di Wassermann. Il condizionale è d’obbligo dal momento che l’editore ha commesso, nel pubblicarlo, tutti, ma proprio tutti i peccati che non si dovrebbero mai commettere. In spregio a qualsiasi considerazione di opportunità se non di qualsiasi consapevolezza del valore delle traduzioni, Baldini & Castoldi ha infatti riproposto la versione (censurata) del romanzo apparsa nel 1937 per le cure di un certo (o una certa) C. S. Inisca, facendola integrare nelle parti mancanti da una nuova traduzione di Tiziana Elsa Prina. A parte il contrasto fra le due mani, che resta evidente, l’effetto che suscita il testo della vecchia traduzione sortisce effetti comici e, a volte, esilaranti, come ad esempio nella scena in cui Kerkhoven, a Giava, rischia di innamorarsi di una sua assistente. Il momento è drammatico, una vita di principi sta per precipitare in una scelta sofferta, e a questo punto si legge: «Kerkhoven fu preso al gioco e divenne inquieto. Sotto l’irradiamento di quella affezione femminina, si schiudeva in lui una quantità di sentimenti di cui prima d’allora non si sarebbe creduto capace». Ohibò! Nemmeno i palesi errori di stampa dell’originale sono stati corretti. A un certo punto spuntano nel cielo di Kehrkoven «il sole e la lima»!

Inoltre La terza esistenza di Joseph Kerkhoven è l’ultima parte di una trilogia la cui prima è costituita dal Caso Mauritius (di cui esistono in commercio diverse edizioni italiane fra cui, ottima, quella pubblicata anni fa da Fazi) e la seconda dal romanzo Etzel Andergast (non più edito in Italia dagli anni settanta del secolo scorso). Perciò chi abbia avuto la ventura di leggere la magnifica prima parte, potrebbe stupirsi di ritrovare nella Terza esistenza di Joseph Kehrkoven l’adolescente, impavido eroe morale di quel primo romanzo evocato nelle vesti di fedifrago corruttore della moglie del suo maestro (lo stesso Kehrkoven) e protagonista di una relazione di cui però, curiosamente, nulla si viene a sapere. E il medesimo lettore non capirebbe nemmeno il senso del romanzo che ha sotto gli occhi, situato tutto nello scontro sorprendente e declinato in molte, forse troppe diverse vicende, fra l’amore come pulsione erotica o come sentimento di dedizione totale all’altro e il senso di responsabilità personale, civile o persino politico: «Mi possono essere tolti tutti i principi di carattere sociale, quando ho davanti un essere umano», dice a un certo punto la moglie di Kerkhoven, Marie. «Devo poter amare per aiutare».
È il grande tema del conflitto fra etica e eros che i tre romanzi declinano ognuno in maniera diversa e apparentemente opposta. E se Il caso Mauritius metteva in scena un adolescente che permette al suo senso di giustizia di dispiegarsi senza freni producendo effetti, insieme, salvifici e distruttivi, i due romanzi successivi dispiegano abilmente il tema del conflitto fra le passioni umane.